27-99 : LA RELIGIONE
NARCISO NERO
Di Gianluca Meotti
La mistica del confinamento per cause religiose rianima sensazioni assopite, e svela il tentativo grossolano delle civiltà occidentali nell’ “educare” i popoli colonizzati. Narciso nero (Black Narcissus, Michael Powell ed Emeric Pressburger, 1947) degli Archers è un melodramma raffinato che punta al cinema totale mentre rivolta le pudicizie del loro tempo.
Un gruppo di suore anglicane, capeggiate dalla giovane madre Clodagh (Deborah Kerr), viene spedito sull’Himalaya per dare vita ad un convento che faccia da sostegno alla popolazione locale. Oltre alla badessa troviamo suor Ruth (Kathleen Byron), novizia entusiasta e fervente di spirito cristiano, che interpreterà il suo ruolo oltre i propri compiti. Dopo le varie difficoltà nell’entrare in contatto con la popolazione, le suore riescono a creare un clima di altruismo reciproco e fiducia, coadiuvate dall’interprete inglese del sovrano del luogo Mr. Dean (David Farrar), con il quale le due sorelle di cui sopra avranno rapporti complessi. Ma il vento soffia troppo forte per mantenere inalterati i legami; isolate da tutto e tutti, le suore inizieranno a far entrare nelle menti e nel corpo sentimenti e sensazioni che il loro ruolo impone di dimenticare; la repressione si sublima in follia, e, ai confini del mondo, questa assume la sua faccia più spaventosa.
Nel 1946, quando Powell e Pressburger iniziarono a progettare il film, erano già una squadra di successo, avendo realizzato Duello a Berlino (The Life and Death of Colonel Blimp, 1943) e Un racconto di Canterbury (A Canterbury Tale, 1944). Capirono subito che girare Narciso nero in India sarebbe stato troppo costoso e difficile, e quindi ricrearono tutto. L’Himalaya è stato realizzato a Pinewood e a Leonardslee, un giardino subtropicale a Horsham, nel West Sussex. I due hanno però fatto della plateale artificialità delle immagini uno dei loro tratti più distintivi; giocando con i colori, le scenografie, i suoni, gli odori e le ombre sono riusciti a realizzare il prototipo di film-sensoriale per antonomasia. Fra tutti questi elementi quello che coinvolge maggiormente per la libertà con cui viene usato è il colore: in una delle scene di maggiore drammaticità, un personaggio viene colto da un raptus di gelosia e passione e inizia a “vedere rosso”. Il virtuosismo visivo è, come al solito, cassa di risonanza delle vicende melodrammatiche alla base dei racconti degli Archers, un uso così unico del Technicolor da dare una nuova dimensione alle capacità espressive del medium cinema.
Alla sua uscita il film causò tantissimi scandali, il che rese più difficile la distribuzione, e la critica l’accolse tiepidamente. Il motivo principale della difficoltosa ricezione risiedeva in uno degli aspetti ad oggi più interessanti dell’intera pellicola: l’ossessione psicosessuale di Suor Ruth è la forza che guida tutto il film, consentendogli di diventare una storia universale sulle repressioni delle pulsioni umane, un ottimo esempio di come una cornice tanto curata dal punto di vista estetico possa contenere al suo interno contenuti così scabrosi e, per l’epoca, blasfemi. L’idea del soggetto ecclesiastico come essere in preda ai suoi bisogni umani primari è un qualcosa che nel 1947 era raro vedere al cinema in maniera così esplicita. I due registi affrontano spavaldamente un tema complesso non rinunciando alla poetica che li caratterizza. Oltre all’elemento visivo, colpisce la strutturazione psicologica dei personaggi, in particolar modo il loro decadimento nel tempo. In un ambiente che si rivela sempre più ostile, le suore sembrano perdere il contatto con la loro vocazione e gli obblighi che questa gli impone; non riuscendo più a tenervi fede, si lasciano andare a tutti quei sentimenti che negli anni di convento avevano ignorato. Il sesso e la nostalgia si rifanno presenti come mai prima d’ora, e con loro l’indecisione su cosa fare domani. Powell e Pressburger restituiscono tutto questo in maniera elegantissima; come accade nei grandi melodrammi basta un sospiro, uno sguardo sfuggente o due mani che si sfiorano per comprendere tutte le intenzioni di un personaggio; usando tutti i mezzi a loro disposizione, i registi mettono in piedi un racconto in un ambiente ostile che costringe le protagoniste a guardarsi dentro per trovare un motivo per continuare a resistere, posando lo sguardo sulla figura della suora molto più umanizzante.
Tutto quel filone di film di serie B nato negli anni Settanta, che aveva come protagoniste suore assassine o sessualmente provocanti, sarebbe stato indubbiamente diverso e avrebbe sentito la mancanza di un valido precedente se non fosse stato per il film di Powell e Pressburger.
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