N4 2025

PERCHÈ LA MARVEL NON RIESCE AD ESSERE PIÙ BRAVE IN QUESTO  NUOVO MONDO?

Di Gianluca Meotti

Riguardando oggi Iron Man 3 (Shane Black, 2013) e comparandolo con l’ultima uscita Captain America: Brave New World (Julius Onah, 2025), si avvertono tutti i cambiamenti profondi che sono avvenuti all’interno del MCU in poco più di dieci anni. Lo snap di Thanos ha cambiato tutto; un evento epocale a livello mediatico e cinematografico di queste dimensioni forse non si era mai visto, e riprendersi da un avvenimento del genere è difficilissimo. C’è stato un totale scompigliamento delle carte in tavola: le figure che reggevano il franchise sono diventate polvere, i nuovi arrivati non sembrano aver rimpiazzato i vecchi nel cuore degli spettatori e poi c’è stato il lancio delle appendici seriali a complicare il tutto (decuplicando le già ingarbugliate linee narrative).

Ma, oltre a questi dati oggettivi, come mai guardando due film MCU distanti una decade, ad oggi, sembrano non appartenere allo stesso universo? Cos’è cambiato nella linea editoriale e cinematografica di casa Marvel  per creare storie così diverse rispetto al (relativamente) recente passato? Prendendo ad esempio il terzo capitolo  dedicato a Tony Stark, e confrontandolo con il suo ultimo fratellino, viene fuori un’idea generale di come a  volte si cambia per sopravvivere o si muore cambiando.

Iron Man 3 è uno di quei film Marvel le cui radici non hanno trovato il terreno sperato per attecchire nel cuore  del fandom e non solo. Riconosciuto da appassionati e spettatori neutrali come un riempitivo messo a conclusione della trilogia di Iron Man, anche dalla stessa Marvel è stato prontamente accantonato. Nei film successivi, infatti, non c’è alcuna traccia né dell’istrionismo delle armature di Tony né del villain Aldrich Killian, interpretato da Guy Pearce, e la sua azienda (destino abbastanza comune tra i temutissimi cattivoni MCU); le uniche briciole sparse di questo film riappaiono, inspiegabilmente, quasi dieci anni dopo in Shang Chi e la leggenda dei Dieci Anelli (Shang-Chi and the Legend of the Ten Rings, Destin Daniel Cretton, 2021)

Nello specifico, il personaggio di Trevor Slattery interpretato da Ben Kingsley (con molte bollette arretrate,  evidentemente).
Ma questo film è molto più complesso e stratificato di quello che sembra. Potrebbe benissimo essere visto come un attacco frontale alla guerra in Iraq, perpetrata da uno stato che inietta paura nei propri cittadini e li convince ad invocare una risposta muscolare, non rivelando, però, che c’è molto di più dietro alle motivazioni che spingono un paese ad invaderne un altro. Il film segue proprio questa linea. Un ricco imprenditore americano (Pearce) ha sviluppato, ma non ancora perfezionato, una tecnologia che potrebbe portare a benefici enormi per la vita umana, Extremis, una sostanza capace di rigenerare tessuti danneggiati. Ma quello che in realtà vuole è riuscire ad arraffare più potere possibile sfruttando questa tecnologia a suo vantaggio. I soggetti  usati come cavia sono tutti ex militari che soffrono di PTSD (proprio come Tony, che ne soffre dopo gli eventi di The Avengers [Joss Whedon, 2012]), i quali vengono sfruttati e sacrificati. Per far sì che sia la popolazione a domandare uno sviluppo in massa di Extremis, Killian decide di creare ex-novo un finto terrorista mediorientale, il Mandarino (Kingsley), al quale far compiere stragi di massa trasmesse a reti unificate. Le mosse che mette in atto Killian non sono troppo diverse da quelle che il governo statunitense, o qualsiasi  governo guerrafondaio della storia, ha applicato alla sua politica estera. La creazione di un nemico comune, lo  sfruttamento disumano dei soldati e la manipolazione delle masse sono strumenti che vengono utilizzati  costantemente in qualsiasi stato sovrano. E tutto questo la Marvel, nel 2013, lo diceva.  

La cura riservata ad un film marginale come Iron Man 3 – e al di poco successivo Captain America: The Winter Soldier (Anthony e Joe Russo, 2014), da molti riconosciuto come il miglior film Marvel tout court – è un buon dato di partenza per capire cosa sia cambiato all’interno del mondo gestito da Kevin Feige; senza giudizi di valore, ma con la consapevolezza che il cambiamento è fondamentale e, mai come in questo caso, è stato incoraggiato da freddi dati incontrovertibili. 

Per dare un quadro ancora più specifico va detto che Captain America: Brave New World è un film unico anche fra i trentacinque figliocci di Feige. Nominalmente dovrebbe essere il quarto capitolo della serie iniziata nel 2011, quando Cap era ancora Steve Rogers; di fatto, però, è il primo re-brand assoluto interno al MCU, e non è una questione da poco. Gli occhi azzurri e i capelli biondi di Chris Evans sono stati sostituiti da Anthony Mackie e dal suo Sam Wilson, side-kick ritrovatosi primo violino dopo Avengers: Endgame (Anthony e Joe Russo, 2019). E poi c’è Harrison Ford che va a sostituire il compianto William Hurt nei panni del presidente Ross (Leslie Nielsen in Scary Movie 3 ci aveva avvertito). Ed infine c’è il side-kick del side-kick, il nuovo Falcon, Joaquin Torres, che affianca Sam già dai tempi di The Falcon and the Winter Soldier (Malcolm  Spellman, 2021). Insomma, le novità sono tante da metabolizzare, un approccio abbastanza singolare per la Marvel degli ultimi anni dato che, fino ad ora, abbiamo visto svariati prodotti dedicati anche a personaggi minori in progetti standalone.

Ma quindi, cosa possono dirci due film così diversi sulla salute del MCU? E soprattutto perché parlare di un film uscito più di dieci anni fa (Iron Man 3 è del 2013) per parlare dei mutamenti avvenuti ragionevolmente dopo l’uscita di Avengers: Endgame? Intanto iniziamo col dire che il vero stravolgimento nell’universo Marvel non è stato fatto da Josh Brolin viola, ma qualche anno prima in uno dei film più importanti in assoluto di tutto il franchise: Thor: Ragnarok (Taika Waititi, 2017). È da qui che la Marvel cambia le carte in tavola. Cede ad uno spettacolo ancora più per tutti, elimina ogni sorta di meschinità o di sfumatura di grigio caratteriale (solo per i buoni ovviamente) e demolisce la costruzione di alcuni suoi personaggi fondamentali. Hulk e Thor sono molto più macchiettistici rispetto alle precedenti comparsate e compongono una coppia tutta da ridere che funziona molto bene, ma allo stesso tempo, lo spettatore viene privato del privilegio di assistere allo sviluppo di due soggettività estremamente complesse e affascinanti (basti vedere il loro ruolo in Avengers e come  vengono interpretati). Da qui non si tornerà più indietro, la nuova linea editoriale va cavalcata sia che produca risultati – Avengers: Infinity War (Anthony e Joe Russo, 2018), Avengers: Endgame, WandaVision (Jac Schaeffer, 2021), Loki (Michael Waldron, 2021-2023), Deadpool & Wolverine (Shawn Levy, 2024) – sia che non li produca (praticamente tutto ciò che è uscito dalla pandemia in poi). Anche il cambio stilistico è netto, c’è sempre meno cura nella computer grafica e la fotografia viene resa il più chiara e visibile possibile, appiattendo tutto e non facendo risaltare nulla nel frame.  

Nel 2013 c’era ancora un approccio diverso ai film e una maggiore cura in generale. Questo è anche testimoniato dalle occasioni mancate in Captain America: Brave New World. Entrambi i film affrontano temi politici molto complessi, ma quest’ultimo non cerca mai di dargli una chiave di lettura (non che ci si aspetti da un grande blockbuster un attacco diretto, ma nemmeno una posizione così blanda), o di mettere sul piatto situazioni che si rifacciano al reale. Ma, nonostante tutto, è inevitabile che Captain America: Brave New World sia quello che sia, anche per cause di forza maggiore. Considerando anche il fatto che il film è stato rigirato in larga parte dopo dei test di prova non andati bene (cosa che già di per sé dovrebbe dare un’idea delle insicurezze  di un sistema di produzione che è quello del blockbuster moderno), sta mancando ormai da qualche anno una politica/poetica interna chiara; non solo una progettazione ben definita, ma un approccio che non abbia come unico fine la massimizzazione economica di IP collaudate. Nessuno si aspetta che Feige e i suoi da un giorno all’altro inizino a fregarsene dell’aspetto monetario del loro lavoro per inseguire una qualche “artisticità” (con buona pace di Scorsese and co.), ma la mancanza di un piano e di una linea editoriale forte è un qualcosa che i fan stanno richiedendo ormai impazientemente, e che l’azienda sembrava aver recepito decidendo di far uscire meno film all’anno ma prestandoci maggior attenzione.

Arrivati a questo punto si vede come le problematiche incontrate in casa Marvel negli ultimi anni siano diverse. Dopo Endgame, l’arrivo della pandemia non ha sicuramente aiutato, ma le colpe dell’azienda non sono nulle. Alla morte di Tony Stark l’MCU stava vivendo il suo momento più florido. Forse è stata proprio questo potere acquisito ad avergli fatto sottostimare le schiere di fan acclamanti, che venivano visti come per sempre fedeli, indipendentemente da tutto. E questa strategia si è rivelata parzialmente vincente sul breve periodo. La curiosità di vedere un film Marvel in sala è sempre tanta in quanto tutti sono memori delle grandi gesta del passato, passato che però può reggere solo fino ad un certo punto per poi crollare sotto il peso di se stesso e di nuove aspettative. Ed è questo quello che è successo in questi ultimi anni: l’impossibilità di trattare un The Marvels (Nia DaCosta, 2023) oggi come sarebbe stato fatto dieci anni fa è il motivo principale alle reazioni tiepide con cui questi film vengono ricevuti. E Captain America Brave New World è un ottimo esempio in questo senso, in quanto, giunto dopo il lungo stop, doveva segnare una sorta di rinnovamento e di ritorno alle  origini. Ma, anche per i problemi produttivi del film, così non è stato, ed ora la sensazione è che ogni film varrà da esame finale con la possibilità di perdere o riconquistare un’ultima volta quel pubblico che si pensava vinto per sempre.

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