DONALD TRUMP E HOLLYWOOD?
Di Miriam Padovan
Se c’era un rapporto più complicato e imprevedibile del finale di Game of Thrones (fanno infatti schifo entrambi), quello era sicuramente tra Donald Trump e Hollywood. Un mix esplosivo di insulti, vendette politiche, accuse di censura e una valanga di film che lo ridicolizzavano o, nei peggiori casi, cercavano di comprenderlo (spoiler: non ci sono riusciti).

Fin dalla sua ascesa politica, il caro Donald si è sempre presentato come l’antitesi perfetta del cinema. Se Hollywood amava la diversità, lui twittava contro il “politicamente corretto”. Se le star parlavano di inclusione, lui proponeva muri. Se i registi osavano mostrare il suo governo come un circo (perché lo era), lui li tacciava di essere marionette della sinistra radicale. Non sorprende, quindi, che la sua presidenza abbia creato un clima di guerra fredda tra la Casa Bianca e gli Studios. Alcuni attori – Mel Gibson, Jon Voight e James Woods – hanno difeso Trump con la stessa passione con cui difenderebbero Star Wars: Episodio IX (il che dice molto). Altri, come Meryl Streep e Robert De Niro, hanno trasformato ogni premiazione in una piattaforma anti-Trump. Trump non ha mai nascosto la sua predilezione per un certo tipo di intrattenimento. Se fosse stato lui il CEO di Hollywood, probabilmente avremmo avuto un universo cinematografico in cui Rambo sconfigge da solo “la sinistra woke” e un Oscar speciale per Clint Eastwood ogni anno.
Eppure, qualcosa di simile è accaduto. Durante e poco dopo la sua presidenza, si è assistito a una crescita esponenziale dei film di propaganda conservatrice: Sound of Freedom – Il canto della libertà (Sound of Freedom, Alejandro Monteverde, 2023), God’s Not Dead: A Light in Darkness (Michael Mason, 2018), The Trump Prophecy (Stephan Schultze, 2018). Prodotti pensati per un pubblico che crede che Barbie (Greta Gerwig, 2023) sia “troppo progressista” e che Tom Cruise dovrebbe guidare la Casa Bianca a bordo di un F-18.

L’industria dell’intrattenimento ha risposto all’era Trump in due modi: alcuni hanno rafforzato la resistenza con film e serie che celebravano la diversità e l’inclusione (The Handmaid’s Tale [Bruce Miller, 2017-in corso], Black Panther [Ryan Coogler, 2018], Pose [Ryan Murphy, Brad Falchuk e Steven Canals, 2018- 2021]), mentre altri hanno preferito adottare una strategia più cauta per paura di ritorsioni governative. Con il secondo mandato, la paura si è trasformata in autocensura. Hollywood, sempre attenta a proteggere i propri incassi, ha iniziato a soppesare ogni parola, ogni casting, ogni battuta satirica. Perché? Semplice: con Trump al potere, le vendette politiche non sono fantascienza. La Federal Communications Commission (FCC) ha iniziato a essere più partigiana, le aziende mediatiche più critiche sono finite nel mirino del governo, e persino la Disney ha dovuto fare i conti con attacchi politici. Ma non è finita qui. Con l’onda conservatrice in crescita, Hollywood ha iniziato a produrre più contenuti “sicuri”: meno eroine ribelli, più storie su uomini forti che difendono la patria. Più western, meno drag queen. Più “famiglie tradizionali”, meno discussioni su identità di genere (forse la questione Gascón sarebbe stata interpretata in un modo diverso se non ci fosse stata la presidenza Trump di mezzo?).
Eppure, il pubblico sembra avere altri gusti. I dati parlano chiaro: i film e le serie più visti negli ultimi anni hanno protagonisti queer-coded (Inside Out 2 [Kelsey Mann, 2024]), eroine indipendenti (Barbie), e una sempre maggiore diversità nei cast (Bridgerton [Chris Van Dusen, 2020-in corso], The Bear [Christopher Storer, 2022-in corso]). Il pubblico conservatore, che si lamenta dei “film woke”, sembra dimenticarsi di un piccolo dettaglio: non va al cinema. I film che soddisfano il loro gusto finiscono spesso per essere un fiasco al botteghino o esistere solo grazie a biglietti comprati in massa da gruppi religiosi.

E quindi, cosa ci riserva il futuro? Hollywood si piegherà alla nuova ondata conservatrice o continuerà a sfidare Trump e i suoi seguaci? Le previsioni indicano una spaccatura sempre più netta: da un lato, ci saranno sempre più film e serie prodotti per il pubblico progressista, perché, sorpresa, sono quelli che effettivamente guardano i film. Dall’altro, il ritorno ai valori “tradizionali” non avrà il successo sperato, a meno che non trovi un modo per coinvolgere un pubblico più ampio. Insomma, la guerra tra Trump e Hollywood è tutt’altro che finita. Ma se c’è una cosa che l’industria del cinema sa fare bene, è adattarsi. E alla fine, mentre Trump cerca di trasformare il Kennedy Center in un santuario del patriottismo populista, Hollywood continua a dettare i gusti culturali.
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