N4 2025

APPROFONDIMENTI

IL WESTERN REVISIONISTA, PARTE IV – SAM PECKINPAH

Di Giovanni “Fusco” Pinotti

Siamo tutti cresciuti con l’idea che sparare a un uomo sia un gioco divertente. Tutti noi, da bambini,  giocavamo a guardie e ladri con pistole giocattolo o puntando il dito contro qualcuno e dicendo, “Bang! Bang! Sei morto!”. Tanto i film quanto la televisione hanno perpetuato l’idea che sparare a qualcuno sia pulito, rapido e semplice, e che quando questo cade a terra ci sia solo un piccolo buco o una macchia di sangue che mostri come sia morto. Beh, uccidere un uomo non è pulito, rapido e semplice. E se abbastanza persone iniziassero a rendersi conto che sparare alle persone non è un gioco divertente, forse riusciremmo ad arrivare da qualche parte per quanto riguarda la violenza sullo schermo. […] No, non mi piace la violenza. Difatti, io stesso quando guardo il film lo trovo insopportabile. Non credo che riuscirò a guardarlo di nuovo prima di cinque anni.1

Nel corso di questo approfondimento, abbiamo avuto occasione di trattare il tema della violenza, soprattutto con film come Nessuna pietà per Ulzana (Ulzana’s Raid, Robert Aldrich, 1972) e Soldato blu (Soldier Blue, Ralph Nelson, 1970). Tuttavia, nell’ambito del cinema nordamericano e del western pochi registi hanno portato avanti una dichiarazione d’intenti e una rappresentazione realistico-stilistica della violenza tanto importanti, efficaci e profonde quanto quelle di uno dei più grandi e importanti autori della settima arte, Sam Peckinpah. I film che prenderemo in analisi – Il mucchio  selvaggio (The Wild Bunch, 1969), La ballata di Cable Hogue (The Ballad of Cable Hogue, 1970) e  Pat Garrett e Billy Kid (Pat Garrett and Billy the Kid, 1973) – restituiscono l’immagine di un’indubbia revisione del genere, certo, ma con prospettive e intenzioni diverse rispetto a quelle comuni a gran parte della scena neohollywoodiana. Spirito anarchico e sregolato tanto nella  messinscena quanto nella sua travagliata carriera, Peckinpah fu in grado di dar vita a un ripensamento intimo, personale e – a parere di chi scrive – necessario del western, il genere a cui più era legato e per il quale viene ricordato dal grande pubblico.

Una premessa necessaria: la scelta del western e la riflessione sulla mascolinità 
Ma perché Peckinpah era legato particolarmente a questo genere? La risposta che consente di spiegare in maniera più approfondita ed eloquente la connessione del regista con il western viene fornita da un’indagine sulle origini familiari del nostro, nato in una ricca famiglia borghese di Fresno, in  California.

Sia da parte di padre che da parte di madre, Sam apparteneva a una stirpe di coloni europei emigrati negli Stati Uniti; questi avevano vissuto in prima persona l’esperienza dell’espansione a Ovest, erano stati i protagonisti delle lotte contro gli indiani, avevano fatto della sopravvivenza nelle terre selvagge, della dura vita della frontiera e dell’autosussistenza la propria quotidianità. I Peckinpah e i Church (la famiglia della madre) si erano arricchiti con le loro proprietà e i loro ranch nei territori del West; Denver S. Church, nonno materno di Sam, riuscì persino a diventare giudice della Corte Suprema e membro del Congresso. Il futuro cineasta, quindi, crebbe circondato da uomini forti e duri, temprati da lotte e conquiste generazionali; il giovane Peckinpah si riempì fin da subito le orecchie e il cuore delle leggende machiste di questi cowboy, che bevevano quantità industriali di whisky, andavano a puttane, si azzuffavano in risse, vivevano della carne che cacciavano e si raccontavano storie dei bei vecchi tempi in cui gli uomini si conquistavano la proprietà attraverso l’abilità con il fucile e grazie al sudore della fronte. Tutto questo machismo è assolutamente presente nei film di Peckinpah che stiamo prendendo in esame: i protagonisti delle vicende narrate sono uomini grezzi, sporchi, inflessibili e sboccati. I fuorilegge del Mucchio selvaggio non sono affatto i bianchi cavalieri senza macchia e senza paura a  cui il western classico aveva abituato il pubblico, ma piuttosto dei briganti spregiudicati e interessati al proprio tornaconto e alla propria sopravvivenza. Questo naturalmente non vuol dire che non risultino piacevoli e simpatici, anzi; lo spettatore non può non affezionarsi agli scanzonati fuorilegge  del Mucchio, al rozzo ma genuino Cable Hogue e alla tragica coppia di nemici-amici composta dal veterano Pat Garrett e dal giovane ribelle Billy. Il fatto che questi antieroi riescano a stimolare  immediatamente nello spettatore un affetto smisurato, nonostante la loro ambigua e discutibile moralità, diventa prova evidente dell’ambivalenza del ragionamento di Peckinpah sulla mascolinità: egli infatti non può negare di sentirsi affascinato e attratto da quel mondo leggendario, fatto di fratellanza e cameratismo tra uomini duri e violenti; questo fascino si traduce in una  messinscena e in un’estetica che – con le dovute eccezioni di cui parleremo tra poco – riprendono il classico e lo rianimano, donandogli nuova linfa vitale grazie a una costruzione dell’immagine e dell’apparenza dei personaggi che rimanda inevitabilmente al canone del mito. Lo stesso Sam, in  diverse interviste, voleva restituire un’immagine mitizzata di sé, esagerando, gonfiando o inventando di sana pianta aspetti della propria giovinezza e del proprio retroterra per sembrare un uomo plasmato dalla frontiera, proprio come i suoi nonni. Eppure, il machismo ostentato di Peckinpah, la cui indole anarchica e intensamente personale lo rende libero da qualsiasi tipo di etichetta, si esaurisce  drammaticamente nella presa di coscienza dell’insostenibilità della mascolinità nel mondo moderno. Da uomo intelligente e istruito, Peckinpah si interroga sulla natura distruttiva e autodistruttiva del maschio bianco, preda di un turbine di valori contraddittori che non possono concludersi se non con il definitivo superamento degli ideali maschili tradizionali. Pur guardando con nostalgia e affetto al periodo dei cowboy, il maestro californiano non lo mitizza mai, perlomeno non  secondo le modalità fordiane all’epoca ormai prevalentemente stantie; il romanticismo di Peckinpah non si traduce mai in una mistificazione ingenua della realtà storica del destino manifesto, ma piuttosto in uno sguardo malinconico a un passato autentico e genuino soppiantato da una civilizzazione che, come vedremo, non mantiene le solenni promesse tipiche del progresso.

Il mucchio selvaggio: la morte violenta del West

Dimenticatevi i nobili e valorosi cavalieri dell’Ovest, i duelli dettati da rigorose regole d’onore, le morti pulite, il trionfo del bene sul male: forse questo avrebbe dovuto dire il nostro Sam al pubblico che, nel 1969, si stava sedendo in sala convinto di star per assistere al solito, vecchio film western. La sorpresa e lo sgomento di chi guardò per la prima volta Il mucchio selvaggio contribuì non solo  all’insorgere di un acceso dibattito sulla rappresentazione della violenza nei media di massa, ma anche alla nascita vera e propria del Peckinpah-autore e a uno strepitoso successo al botteghino, fondamentale per la carriera del regista e per la ridefinizione agli occhi del grande pubblico del significato stesso di film western. 

Il luogo in cui viene ambientata la storia è uno dei più cari al genere, il confine texano tra Stati Uniti e Messico; la data della vicenda, invece, è meno canonica: siamo nel 1913, quando in Europa le grandi potenze imperialistiche si stanno preparando all’imminente conflitto e in America il West è stato perlopiù conquistato e domato dalla civilizzazione. Una gang di fuorilegge guidata da Pike Bishop (William Holden), ormai non più nel fiore degli anni, è costretta alla fuga dopo una sanguinosa rapina andata in malora a causa dell’intervento di un manipolo di cacciatori di taglie capeggiati da Deke  Thornton (Robert Ryan), ex collega e migliore amico di Pike ora passato dalla parte della legge. Braccati da Deke e i suoi uomini, i criminali varcheranno il Rio Grande e cercheranno di proseguire le  loro vite sregolate in un altro paese, rimanendo invischiati nella feroce lotta tra il repressivo governo messicano e i rivoluzionari. Disillusi da qualsiasi tipo di ideale se non quello della fratellanza reciproca, Pike e i suoi organizzeranno la loro uscita di scena in un’ultima, micidiale battaglia. 
Tutto l’esagerato e totalizzante machismo di cui abbiamo parlato prima fa la sua comparsa più prepotente con la pellicola indubbiamente più famosa di Peckinpah. I rozzi outlaws del Mucchio compongono un manipolo antieroico dalle mille contraddizioni, ma che non può non fare breccia nel cuore degli spettatori, affascinati quanto lo stesso Sam da quella libertà assoluta, da quel cameratismo sboccato, da quell’irrazionale codice d’onore, dall’infantile e senile ribellione alla faccia di una società che sta cercando di seppellire la sua autentica natura attraverso gli stessi, violenti metodi che si vanta di condannare. Pike e la sua gang sono dei relitti, dei fossili del passato incapaci di adattarsi a un mondo che ormai è stato cambiato dagli avanzamenti tecnologici e dalla conquista della frontiera. Il West non solo sta morendo, ma deve morire; è proprio contro questa tragica evidenza che il Mucchio sbatte il muso, con tutte le catastrofiche conseguenze che ne deriveranno. Una volta che i vecchi fuorilegge si renderanno conto della brutale verità dei fatti, dell’ineluttabile  morte di un intero periodo e sistema, decideranno, con amara consapevolezza, di seguire il corso della storia… ma alle loro condizioni, come hanno sempre fatto.  
Lo sfondo sociale dell’opera è chiaro: molti critici e commentatori di ieri e di oggi riconoscono il tono antimperialista e antibellico del film. Come diversi liberi pensatori del periodo, Peckinpah – il quale aveva prestato servizio militare in Cina agli sgoccioli della Seconda guerra mondiale e aveva assistito a una dose minima ma sufficiente di orrori – era contrario all’aggressione statunitense contro il Vietnam, e la presenza di una forza americana spinta unicamente dai propri interessi in un paese straniero squassato da un conflitto tra forze governative e rivoluzionarie nel Mucchio selvaggio diventa chiaro rimando al vicolo cieco in cui si era impelagato all’epoca l’impero yankee in Indocina. Tuttavia, la critica politica non è affatto al centro delle mire del grande cineasta; o perlomeno, in questo film serve solo come strumento per fare un discorso più ampio e globalizzante sul vero e proprio tema dell’opera: la violenza, intesa non come situazione limitata a un singolo evento o circoscritta in un determinato contesto storico e sociale, ma come vera e propria piaga esistenziale e  propriamente umana. 
Parlare della violenza in Peckinpah – e soprattutto ne Il mucchio selvaggio – richiederebbe un Castoro a parte
2. Ormai tutti abbiamo più o meno presente le esplosioni di sangue, il montaggio rapido e il ralenti che caratterizzano le due principali sparatorie del film. È una messinscena che, oltre a fondare uno stile riconoscibile anche da neofiti o non addetti ai lavori per la sua efficace evidenza, diventa un manifesto poetico tanto controverso quanto brillante. Con tutto il suo esuberante anticonformismo, che stride con l’adozione di un’estetica apparentemente classica del western, Peckinpah sfoggia un  beffardo dito medio contro l’ipocrisia di una società che manda i propri figli al fronte e che mostra ai notiziari con tranquillità e placido disinteresse scene autentiche di guerra, solo per poi scandalizzarsi se al cinema si vede uno schizzo di sangue in più o un seno scoperto in bella vista. Il maestro californiano ripulisce le sparatorie da tutta quella fasulla e fittizia pulizia a cui il cinema hollywoodiano aveva ormai abituato il proprio pubblico, squarciando il velo di Maya del monotono bang!, delle nuvole di fumo, delle camicie intonse rette da una mano laddove il proiettile dell’eroe è penetrato. Per Peckinpah, la violenza era una cosa seria, da trattare in tutto il suo macabro realismo e senza esclusione di colpi. L’ingenuità della rappresentazione canonica della violenza lo aveva condotto a un grado di frustrazione tale da voler prendere in mano le redini del genere, tagliando bruscamente i ponti con un passato mitizzato e romanticizzato e sbattendo in faccia al pubblico la realtà dei fatti.

Nel corso delle due grandi sparatorie del film, non mancano le vittime innocenti, colte nel mezzo di una tempesta di sangue, polvere, urla oscene e sudore. L’autenticità maniacale della messinscena si traduce non solo in una precisa ricerca storica per quanto riguarda il suono e il modello di ogni  singola arma, ma anche – come anticipato – in una dichiarata volontà di conoscere e rappresentare  senza orpelli o compromessi la natura della violenza, fenomeno di cui l’uomo è massimo esponente.

Il pessimismo cinico di Peckinpah lo porta ad affermare che la violenza, lungi dall’essere “contronatura”, fa parte di ogni singolo essere umano e permea ogni aspetto della società civile. Basti  pensare alla scena iniziale, quando il Mucchio arriva in città e la macchina da presa si sofferma su un gruppo di bambini che, in tutta allegria, osserva divertito mentre uno scorpione viene sopraffatto e divorato da delle formiche (scene di violenza ludica – fatta eccezione per La ballata di Cable Hogue, dove l’animale viene ucciso per essere mangiato – sugli animali da parte dei personaggi aprono tutti e tre i film di questo approfondimento); secondo Peckinpah, anche sin dalla più tenera età esiste qualcosa, un germe dell’aggressività, all’interno della bestia umana, un istinto o un piacere che non può che venire esacerbato dalla realtà delle istituzioni e del mondo in cui si trova. Siamo creature innatamente e istintivamente violente, che portano avanti con cieca e ignorante ipocrisia la convinzione di aver domato le nostre pulsioni, di averle incanalate in qualcosa di migliore. Di fronte all’evidenza di un mondo brutale e corrotto, dove la bussola morale – ammesso che questa esista – è appannaggio di poche eccezioni, Peckinpah ci sprona ad abbandonare l’idea di aver sostituito l’America violenta e sanguinaria con una più pura e civile; anzi, forse, nel mezzo di tutti quei proiettili, è stato soppresso qualcosa di autentico e genuino, di libero e scanzonato. 

È la morte violenta del West. 

La ballata di Cable Hogue: la morte ironica del West
Molti registi inferiori avrebbero deciso di cavalcare l’onda del successo de Il mucchio selvaggio e raccontare il tramonto dell’Ovest con stile e modalità invariati. Fortunatamente per noi (e sfortunatamente per il portafoglio del buon Sam), Peckinpah era molto più intelligente della media hollywoodiana, un autore che sapeva di essere tale e a cui poco importava dei desideri del pubblico e dell’industria. È proprio da questo libero menefreghismo che nasce La ballata di Cable Hogue, uscito appena un anno dopo il controverso capolavoro di Peckinpah.

Ci troviamo ancora nei primi anni del Novecento. Tradito e abbandonato nel deserto dai suoi due compagni, Cable Hogue (Jason Robards) sfugge a morte certa quando, per miracolo o per caso, trova una pozza d’acqua laddove nessuno l’aveva identificata prima. Precipitatosi in città a reclamare il territorio, Cable riesce a costruire attorno alla sorgente una stazione di ristoro per le carovane e i viandanti di passaggio, sporadicamente accompagnato e aiutato nella sua avventura dal lussurioso reverendo Joshua (David Warner) e dalla prostituta Hildy (Stella Stevens), con la quale Cable intrattiene un’altalenante relazione. Il vagabondo-diventato-imprenditore dovrà fare i conti con l’incombente cambiamento del paesaggio e della società, sullo sfondo di un progresso tecnologico che rischia di abbandonarlo nella polvere un’altra volta.  


Leggendo la trama del film, immagino che diversi di voi abbiano notato le similitudini tematiche con Il mucchio selvaggio, soprattutto nell’ultima frase. D’altronde, i tre film trattati in questa sede, come avrete intuito, trattano tutti di una sola vicenda – la morte del West – in modalità diverse. La ballata di Cable Hogue, in particolare, si distingue dalle altre due pellicole per la sua natura comica e irriverente. Si parlava prima della facile riconoscibilità dello stile di Peckinpah; ebbene, Sam stesso era pienamente consapevole di ciò, e piuttosto che ricadere nella ripetizione stantia delle glorie passate, decise di fare una sorta di autoparodia, giocando con le aspettative che il pubblico aveva sia nei confronti del genere sia in quelli del regista. La commedia di Peckinpah presenta solo tre scene di violenza, caratterizzate da un’inedita rapidità – intesa come spazio breve occupato nel minutaggio – e dalla secondaria rilevanza rispetto al tono generale del film, impegnato più a prendere e prendersi in giro e a raccontare una storia fatta di personaggi scritti con cura che a portare sullo schermo sparatorie e pistoleri.  
La vicenda del nostro Cable – interpretato da un Robards fresco di collaborazione leoniana – è prima di tutto una narrazione personale di un rozzo e ignorante bonaccione dalla scarsa igiene personale in cerca di farsi un nome e di costruirsi una carriera. Si tratta nuovamente di un antieroe, le cui peripezie  riflettono la natura storica e sociale di un certo tipo di capitalismo americano: le difficoltà dell’avvio di una piccola impresa, la crescita economica, il successo e, infine, l’inevitabile caduta a fronte di un mercato dove i grandi coyote mangiano le piccole prede. Da notare, inoltre, quanto Peckinpah capisca e faccia capire come la violenza sia alla base di qualsiasi acquisto territoriale, anche (ma non solo) nel  West, dove è molto più utile un fucile carico piuttosto che un pezzo di carta in grado di essere letto solo da pochi; il primo cliente della stazione di Cable, infatti, si rifiuta di pagare l’acqua per cui ha  appena bevuto e costringe il nostro proprietario a piantargli una pallottola in corpo. L’origine della proprietà si basa sul sangue e con esso si difende.

Le implicazioni tematiche sembrerebbero dare all’opera un tono serioso e sociale che, in realtà, non possiede affatto, benché quando serve il film si prenda indubbiamente sul serio. Come anticipato, si tratta principalmente di una commedia western, dove il nostro simpatico e tenero antieroe Cable cerca di fare la cosa giusta per sé in un mondo attorniato da bizzarri personaggi di contorno, quali i summenzionati Joshua e Hildy: il primo è un reverendo di una chiesa “derivante da una Rivelazione tutta sua” dotato di un’eloquente parlantina, che sfrutta per sfogare le sue lussurie su damigelle indifese; in una scena esilarante, il nostro uomo di fede sfrutterà la sua ars oratoria per cercare di infilarsi in mezzo alle gambe di una giovane in lutto per la morte del fratello, solo per poi cercare – fallendo – di dileguarsi al sopraggiungere del di lei marito, in una sequenza durante cui Peckinpah velocizza l’immagine come per rifarsi alle vecchie comiche. La seconda, una prostituta di successo che sogna di trasferirsi in città, sarà il soggetto di una scena in cui Peckinpah utilizzerà il suo famoso montaggio rapido per rendere protagonista l’ampia scollatura della donna, sulla quale cadrà inevitabilmente lo sguardo del nostro Cable. La storia d’amore fra i due colpisce non solo per una tenerezza forse inaspettata dal regista di Fresno, ma anche per il suo realismo: niente romanticismi da smancerie fra i due, ma solo patti in cui rientrano i reciproci interessi e dai quali sorgeranno le loro simpatie e i loro contrasti. Il montaggio delle tre settimane durante cui Hildy aiuta a ripulire e a dare un’immagine dignitosa alla fetida stazione di Cable è tanto divertente quanto dolce.

Non ci sono solo risate e amore nella ballata di Cable Hogue; si tratta pur sempre di un elogio funebre – proprio come quello improvvisato da Joshua in occasione della dipartita del protagonista – inevitabilmente nostalgico verso un’era fatta di contraddizioni e avversità, ma anche di autenticità e purezza.

L’arrivo dell’automobile nel deserto, l’immagine di un coyote con il collare: pensiamo a  tutto meno che a un felice progresso vedendo queste figure, non tanto per l’innegabile comodità e relativa sicurezza generate dall’aver domato le terre selvagge, ma per la triste consapevolezza di tutto quello che c’è stato dietro a questa conquista e di tutto quello che è stato perduto.
Un po’ come ne Il mucchio selvaggio, ma stavolta con un debole sorriso sulle labbra.  

È la morte ironica del West. 

Pat Garrett e Billy Kid: la morte tragica del West 
Tre anni dopo aver ballato e sudato insieme a Cable Hogue, Sam Peckinpah torna a prendersi (del tutto) sul serio con un film che riprende i temi più cari al maestro e la sua voglia di rivedere il genere, li fonde con la vicenda storica di due leggende del Far West e ottiene come risultato una tragedia crepuscolare e malinconica.

Verso la fine del XIX secolo, Pat Garrett (James Coburn, altro fresco reduce di una cooperazione con Sergio Leone) porta al suo amico di vecchia data Billy the Kid (Kris Kristofferson) una brutta notizia: il giovane pistolero ha pochi giorni di tempo per andarsene prima che Pat, divenuto sceriffo, lo arresti. Naturalmente, il fuorilegge ribelle si rifiuta, così Garrett, ingaggiato dagli agenti del grande capitale statunitense, si lancia all’inseguimento del suo vecchio compagno. Le conseguenze di questa lotta fratricida saranno traumatiche e lasceranno i superstiti in preda alla penosa coscienza di essere gli ultimi e stanchi superstiti di uno scomodo passato.  
Nell’ultima pellicola del trittico western qui preso in analisi – tormentata durante le riprese dai feroci scontri tra Peckinpah e la produzione e dal sempre più grave alcolismo del regista, fattori che avranno come conseguenza la presenza di più versioni dell’opera e il suo scarso successo di botteghino e critica all’uscita – tornano molte delle caratteristiche precedentemente discusse: su tutte, la caccia ai fuorilegge da parte di amici-divenuti-nemici, l’implacabile arrivo del nuovo secolo che schiaccia i rimasugli del passato, antieroi dalla dubbia morale ma dal ferreo codice d’onore e il cinismo di fondo  temperato da una romantica ma realistica nostalgia. In Pat Garrett e Billy Kid, la cosa che colpisce di più è che lo stesso West viene usato per la sua distruzione; proprio da questa caratteristica deriva la scelta di Peckinpah di includere nel cast diversi attori dal solido retroscena western, tra cui lo stesso Jason Robards, Chill Wills, Slim Pickens, Barry Sullivan, Dub Taylor, R.G. Armstrong, Elisha Cook Junior, Paul Fix, Katy Jurado e Jack Elam (gli ultimi due li abbiamo già incontrati, se ricordate, quando abbiamo parlato di Mezzogiorno di fuoco). 

Molti di questi personaggi incontreranno la fine del proprio cammino nel corso delle vicende narrate,  spesso per mano dei loro simili, messi l’uno contro l’altro da una società molto più implacabile e  spietata del peggiore fra di loro.

L’autoestinzione indotta del cowboy come personalità dominante diventa il filo rosso che lega tutte le vicende, principali e secondarie, dei malinconici eventi portati sullo schermo da Peckinpah, la cui regia – che qui tocca picchi artistici inauditi – sottolinea con grazia ed empatia i temi della storia. Tra le tante scene memorabili, forse quella che spicca di più è la scena in cui Pat spara allo specchio: in quel momento, la coscienza di quello che sta succedendo investe il vecchio sceriffo con tutto il peso di una valanga. Da una parte, Garrett si rende conto che quegli stessi ricchi bastardi che lo hanno assoldato per porre fine all’esistenza del suo migliore amico prima o poi verranno a prendere anche lui – certezza che noi sappiamo essere tale sin dal prologo, ambientato nei primi del Novecento e durante il quale Pat sarà vittima di altri tagliagole assoldati dai suoi vecchi datori di lavoro; dall’altra, guardare il proprio riflesso bucato dall’impatto del proiettile rende esplicita l’idea alla base della pellicola di Peckinpah, ovvero il fatto che, uccidendo Billy, Garrett sta eliminando una parte fondamentale di sé, sta assassinando se stesso e tutto ciò che ha reso la sua vita degna di essere vissuta. E per cosa, poi? La giustizia dei nuovi padroni dell’America non ha nulla a che fare con il desiderio di riportare l’ordine a vantaggio della gente – che infatti spesso guarda a Billy e ai suoi compagni con rispetto o simpatia – ma riguarda piuttosto la liquidazione di una consistente minaccia al profitto e all’egemonia.  
Come se non bastassero le strepitosi doti tecniche di Peckinpah, la tetra e funeraria atmosfera di questo capolavoro del western viene accompagnata da canzoni scritte apposta per il film da Bob  Dylan, qui interprete del laconico e misterioso Alias, uno degli ultimi partner di Billy. Indimenticabile è una delle canzoni più celebri del poeta e cantautore, Knockin’ on Heaven’s Door, che viene abbinata a una delle scene più tristi del film. 
 

È difficile descrivere Pat Garrett e Billy Kid senza commuoversi. La storia del film trascende i  confini del western – pur essendo uno degli esempi più riusciti del genere e della sua curva revisionista – e diventa un racconto profondo fatto di antieroi vulnerabili, di amicizie fraterne rovinate  dal potere, della perdita di qualcosa di autentico e puro che accomuna molti film di Peckinpah. 
È la morte tragica del West. E non c’è possibilità di arrestarla.

Cosa rimane del western di Sam Peckinpah? 

L’influenza di Peckinpah sul genere e sul cinema viene spesso sottovalutata, soprattutto da chi taccia i suoi film di essere meri e provocatori esercizi di stile che non sono sopravvissuti alla prova del tempo, opinione ridicola che spero di aver confutato con questo misero contributo – che, tra l’altro, analizza solo una minima parte della filmografia del nostro. Tra i tanti registi che hanno dichiarato di ispirarsi al maestro di Fresno spiccano principalmente Quentin Tarantino (impossibile non vedere nella violenza e nei personaggi de Le iene [Reservoir Dogs, 1992] i richiami a Il mucchio selvaggio), Kathryn Bigelow (anche i suoi film presentano riflessioni di peckinpahiana memoria sulla mascolinità, senza contare che Il mucchio selvaggio è uno dei suoi film preferiti), Michael Mann (il suo capolavoro del 1995 Heat trabocca della lealtà, violenza e onore dei personaggi di Peckinpah) e Martin Scorsese (uno dei pochi ad acclamare Pat Garrett e Billy Kid all’epoca della sua uscita al cinema). Gli amanti del mondo videoludico avranno già riscontrato diverse similitudini tra il cinema di Peckinpah e la trama di Red Dead Redemption (2010), mentre quelli delle serie TV non possono non notare le influenze del regista su capisaldi del medium come  Deadwood (David Milch, 2004-2006) e Breaking Bad (Vince Gilligan, 2008-2013).


1 Risposta di Sam Peckinpah alla domanda “Perché ha fatto questo film [riferito a Il mucchio selvaggio]?” posta da un critico del Reader’s Digest, luglio 1969. 
2 Ci ha già pensato, a suo tempo, Valerio Caprara con Sam Peckinpah, L’Unità/Il Castoro, Milano, 1995.

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