L’APPRENDISAGE – CELESTE ZANZI
Di Giovanni “Fusco” Pinotti
Puoi fare una piccola introduzione tua e del tuo collettivo?
Noi siamo le Amuse-Bouche, anche se adesso ci sono solo io, e siamo di Padova. Ci siamo costituite alla fine dell’anno scorso e abbiamo tre progetti all’attivo, con L’apprendissage che è il secondo, Demons che è il primo e l’ultimo che deve ancora uscire ed è un videoclip per i Queen of Saba. Siamo un gruppo queer femminista e cerchiamo di fare questi cine-esperimenti. Una persona molto saggia ha detto una cosa che mi è rimasta impressa; è una mia professoressa, perché io mi sono appena laureata al DAMS di Padova alla magistrale. È una produttrice che è stata nostra professoressa e ha detto che con questi progetti stiamo cercando di socializzare i sentimenti. Questa cosa mi è piaciuta molto.
Il cinema femminista, se così si può definire, in Italia e nel mondo occidentale è spesso molto superficiale, di facciata. Si vede anche dai film di successo che si fanno portatori di queste tematiche degli ultimi anni. E quindi volevo chiederti…
Ma stiamo per caso parlando di The Substance?
Ehm, forse… Volevo però chiederti come intende porsi a riguardo il vostro collettivo.
Noi non abbiamo un manifesto e ci troviamo bene così. È un posto in cui poter imparare insieme, tanto che ci sono persone che sono già state su set e persone che invece sono state su un set per la prima volta con Amuse-Bouche, quindi il concetto prima di tutto sta nel recuperare una forma di comunità, ovviamente all’interno di progetti ben specifici, che sono quelli cinematografici. Mi rivedo molto in quelle frasi, forse un po’ già sentite, tipo, “Non sai cosa fare? Prendi le tipe che ti ispirano di più e facci un collettivo.” E fai questo tentativo, che non è per niente facile, perché ti trovi a lavorare nel modo più orizzontale possibile e quindi con individualità anche molto diverse fra di loro, tutte però con un obiettivo comune che è raccontare anche dei pezzi di noi, perché comunque non credo sia possibile separarsi, almeno per quanto mi riguarda in quanto donna/persona che usa i pronomi femminili. Non mi sento di poter separare il mio pensiero, quello di cui vado a parlare e di cui andiamo a parlare tutte insieme, poiché è frutto di un’urgenza che abbiamo. E in questo senso femministe e queer, perché, banalmente, lo siamo. In Italia su questo c’è poca roba. E quindi da una parte vado alla ricerca di un mio posto che potrebbe esserci, però poi vedo che non siamo l’unica realtà femminista e queer, ce ne sono tante altre. Il fatto è che è tutto underground. Io mi sono laureata con una tesi sul cinema underground femminista degli anni Settanta. Le cose cambiano perché cambia il modo di produzione e distribuzione. Però mi piace anche questa carica anti-istituzionale che permane e che ha una specificità italiana. Quest’ultima poi magari non va a nostro favore nel momento in cui sento che siamo anche un po’ confinate nell’ambiente underground, perché quello è il posto in cui effettivamente si può circolare. È comunque una grande risorsa, perché abbiamo potuto fare dei film del genere.
Mi ricollegherei all’underground che hai menzionato. Ho apprezzato molto la vostra dichiarazione sul copyright e sul processo educativo dal basso, perché mi ha ricordato molto quegli ambienti della contro e sottocultura, per esempio, dei documentari di Cecilia Mangini, che venivano diffusi nelle sedi del PCI. Tuttavia, parlandone prima con il mio amico e collega Edoardo, lui mi diceva di essere idealmente d’accordo, ma mi faceva notare che così facendo andate a estraniarvi qualsiasi possibilità di distribuzione concreta. Quindi…
È vero.
Come vi ponete da questo punto di vista?
Allora, questa è colpa mia, perché prima del cinema per me c’era la musica. Io adesso ho trentadue anni e ho vissuto gli anni della fine adolescenza e inizio età adulta in cui c’era l’indie italiano che aveva una geografia precisa. Io sono di Ravenna, e c’era Bologna col Covo, c’era Pesaro con la Cira e c’era Ravenna con l’Hana-Bi, il Fargo, il Bronson e così via. Uno specifico tipo di musica, quindi, con cui si cresceva e che era un po’ caratterizzato anche dall’atteggiamento snob che permeava un po’ l’ambiente e che adesso per fortuna non c’è più. Frequentare questi posti mi ha consentito di fare delle conoscenze che altrimenti non avrei fatto. Ed è rimasto comunque il desiderio, nel momento in cui sono approdata al cinema, di portare questo mondo, questa cosa che avevo coltivato per tantissimi anni senza suonare, perché io ero una delle poche che non aveva una band. Io non riesco a scrivere senza ascoltare musica. So che è contro qualsiasi regola, perché ti dicono, anche al DAMS, di non avere mai sotto mano una playlist già fatta quando scrivi le sceneggiature, devi mettere meno indicazioni possibile sulla musica, sennò i diritti eccetera, eccetera… È vero, è vero, però siamo qui adesso con voi. Saremo a giugno a un festival a Padova, siamo già state a due Festival. È sempre nel circolo underground, però se qualcuno ti deve notare, ti nota lo stesso; tanto vale mostrare che cosa vorremmo fare più che sentirci ingabbiate da delle regole fisse, perché tanto poi vediamo che ciò che funziona, funziona a prescindere da tutto. Poi la distribuzione per i corti in Italia non è che funzioni così bene da poterti permettere di pensare effettivamente di essere certa che qualcuno distribuisca il tuo corto. Se noi abbiamo un’urgenza di raccontare una cosa in un certo modo, tanto vale farlo nel modo in cui lo crediamo; più fattibile, più conforme alla nostra estetica, che si va poi a creare in successione con i progetti. E quindi la musica ci vuole per forza. L’apprendissage, senza quella musica, non sarebbe stato L’apprendissage.
Pensate che l’autodeterminazione e anche la socializzazione dei sentimenti, come l’hai posta tu, debbano passare anche attraverso una socializzazione dei mezzi di produzione culturali?
Ci penso molto a questa cosa. Noi facciamo progetti che non sono a scopo di lucro, perché, come abbiamo detto, noi per questi progetti finora ci abbiamo solo speso. Non saranno di certo progetti che ci renderanno più ricche, non l’abbiamo fatto con l’intento di fare dei soldi. Penso innanzitutto che dovrebbero cambiare le leggi su queste cose, ma ciò non mi compete. Non faccio economia dello spettacolo. Però ci dovrebbe essere una democratizzazione dei processi. Adesso è tutto molto settoriale, tutto deve stare nel suo. Stai nel tuo, fai una cosa e non ti puoi allargare perché sennò… cosa succede? Si tratta poi di usare, soprattutto adesso, il détournement; nell’epoca contemporanea, tutte le opere sono all’interno di un flusso, e l’atto di rubare è quasi un atto sacrosanto.
Era esattamente quello che volevo chiederti, perché quando ho letto “cine-esperimenti”, la mente è andata subito al Situazionismo e a La società dello spettacolo.
Esatto, l’hai già detto tu. C’è una citazione da una drammaturga che mi piace, Sarah Kane. In Psicosi delle 4 e 48, lei scrive che il furto è un atto sacrosanto sulla via dell’espressione. Questa frase me la porto sempre nel cuore.
Beh, sì, è una gran bella frase, devo dire. Parliamo della protagonista del corto, la Marchesa de Merteuil. Si tratta di un personaggio dal forte retroscena letterario e filmico, perché viene dal romanzo epistolare e ci sono stati diversi adattamenti cinematografici. Per quale motivo l’avete scelta come protagonista e in quale modo riflette la vostra poetica?
Più che frutto di una scelta è frutto di un’ossessione, perché io ho letto Le relazioni pericolose a tredici anni dopo aver visto il film Cruel Intentions. Mi aveva colpito tantissimo come personaggio, quindi ho macinato per vent’anni e poi è uscito questo, frutto di una fissa per Jeanne Dielman e per questo personaggio che si ripresentava. Hanno avuto un ruolo anche le riflessioni su che cosa ha significato per noi crescere in un certo periodo nei primi anni Duemila. Ci sono tanti influssi: c’è l’influsso dei giornalini per ragazze (come Top Girl e Ragazza moderna), c’è tantissimo l’influsso di Isabella Santacroce e di tutti quei film che sono parte della scenografia. Si tratta insomma di tanti pezzettini che si sono riuniti insieme per creare questo personaggio.
Avete descritto questi cine-esperimenti come documentario ibrido, fiction e film d’essai, tutte espressioni dalle intenzioni che possono collegarsi, che possono trovare punti di incontro, ma che, una volta analizzate nella loro definizione canonica e precisa, sono una più diversa dall’altra. Voglio chiederti, quindi, come avete gestito tutte queste influenze e come avete cercato di trasmetterle in un corto da presentare. Qual è per voi, insomma, il ruolo della comunicazione a un pubblico?
Non abbiamo agito tanto sul piano teorico. Non abbiamo un manifesto, come ti avevo menzionato. Le definizioni sono state date dopo, perché prima c’era l’urgenza di fare, e di fare in un modo diverso da quello che avevamo visto finora, mettendo insieme tante suggestioni. Credo che forse quando cerchi di programmare troppo il discorso teorico, rischi di perderti. Questa almeno è l’esperienza che ho avuto con un collettivo precedente, con cui le cose non erano funzionate, perché forse si cercava di darsi dei paletti sulle cose da fare, sui ruoli da avere, rischiando appunto di perdersi. In merito alla comunicazione, noi abbiamo pensato di avere come pubblico di riferimento persone come noi, fattore indubbiamente limitante, però è anche – secondo un mio parere personale – meno ipocrita del descrivere sempre le storie particolari come universali, cosa che avviene anche da parte della stampa. Costruii questo pensiero quando uscì Ritratto della giovane in fiamme, con tutta la stampa che insisteva molto sul fatto che la storia non era universale perché c’erano due lesbiche, però l’amore tra le due era universale. C’era insomma questa insistenza sul fatto che una cosa debba per forza essere per tutti. Io posso guardare cose che non sono fatte con me in mente; credo che forse ci sia un po’ di confusione anche su come posizionarsi. Penso che sia più onesto a volte dire che abbiamo fatto questa cosa per un piccolo gruppo. Non che sia impossibile fare un cult in questo modo o che il nostro corto lo sia, però forse è meglio partire senza avere la pretesa di dover parlare a tutti. Io non penso di poter parlare a tutti, nessuna di noi può farlo. Noi ci prendiamo un pezzettino, lo raccontiamo, e se anche solo un pezzettino ci torna indietro siamo contente. Questo perché non abbiamo la pretesa di parlare per tutti e con tutti. Qualora poi questo succeda, ben venga.
Sì, anche perché alla fine l’autore nel cinema parla principalmente di sé, cioè parla prevalentemente delle sue nevrosi e delle sue prospettive, della sua visione del mondo, ed è di conseguenza naturale che non sia universale. Tornando alle domande, una frase famosissima afferma che il personale è politico. Le vostre prospettive e il vostro vissuto personale possono riflettersi in una visione artistica e in una poetica politica. Quindi ti chiedo se sei d’accordo su questo e se esista e cosa sia un cinema femminista.
Il personale è politico – citazione che mi vede assolutamente d’accordo – viene direttamente dagli anni Settanta, quindi ritorniamo nel tema della mia tesi. C’era questa esigenza di portare delle istanze in un territorio che era dominato da uomini. Per questi progetti – Demons, che adesso è già disponibile su YouTube, e L’apprendissage, che per ora non è ancora disponibile – noi ci siamo concentrate sul tema dell’aborto, parlandone in modo (speriamo) diverso da come è stato fatto finora e avendo però delle persone, delle artiste, ben precise alle spalle. Credo non ci sia ancora un cinema femminista, almeno a livello mainstream. Però è vero che ci sono Céline Sciamma, Julia Ducournau e anche Rose Glass, che magari non fanno il manifesto femminista, però ti mostrano la via. Quindi forse non c’è a livello di movimento, tuttavia ci sono delle singole persone, come c’erano Chantal Akerman, Agnès Varda, Marguerite Duras… C’è stato il tentativo di recuperare e di unificare le cose in Italia. Lo abbiamo visto, l’Italia è famosa per i collettivi. Soprattutto a Roma c’è il collettivo Alice Guy, il collettivo Cinema, hanno fatto Processo per stupro, che era importantissimo… e quindi, ecco, noi nella specificità italiana abbiamo dei tentativi di socializzazione del cinema. Io ovviamente ti parlo di quello che conosco. Sarebbe bello ci fosse. Cos’è poi il cinema femminista? Penso che ognuna di noi possa autodeterminare i propri confini. E penso sia bello sapere di cosa puoi parlare e a volte anche sapere di cosa puoi tacere. Mi piacerebbe collaborare a livello sia collettivo sia personale con persone dal vissuto diverso dal mio. Non farei un film con protagonista una donna nera immigrata di seconda generazione in Italia, perché so che ci sono persone che potrebbero farlo meglio di me. Preferisco dunque supportare quelle persone che potrebbero farlo meglio di me piuttosto che arrogarmi per l’ennesima volta il diritto di parlare in quanto donna. Ognuna decide da sé i propri confini, che non sono però delle gabbie, sono delle aree di responsabilità. Dopodiché, a livello utopico un cinema femminista è un cinema di cura sia nei confronti dello spettatore, sia nei confronti di chi sta dietro e davanti la macchina da presa. Noi cerchiamo di avere sul set delle aree di decompressione, di comunicare in modo chiaro e diretto ma con cura, di dire come ci sentiamo e come stanno andando le cose. Per il progetto dopo L’apprendissage abbiamo avuto un intimacy coordinator, che era una cosa importantissima, abbiamo fatto esercizi di respirazione, abbiamo mantenuto sempre un livello di cura che – me ne rendo conto – fare in una crew molto più grande può essere difficile. Però anche questo è cinema femminista, perché non è solo importante il messaggio. Un film femminista con dei temi e dei contenuti femministi che dietro le quinte permette che succeda di tutto e di più è controproducente. Naturalmente, nessuno è perfetto; non voglio dare un’immagine idilliaca, perché abbiamo avuto anche noi dei contrasti con persone con cui abbiamo collaborato, io in primis. Non siamo delle fatine che vanno d’accordo con tutti. Cerchiamo anche noi di capire cosa vogliamo fare.
Tocca ora alla domanda obbligatoria, che è da porre a qualsiasi cineasta o aspirante italiano: come vedi lo stato del cinema in Italia?
Aiuto… allora, ho visto delle cose che mi sono piaciute tantissimo e che mi fanno ben sperare. Amanda di Carolina Cavalli mi è piaciuto tantissimo. Roberta Torre è molto brava. Naturalmente, poi, Vermiglio di Maura Delpero. Vabbè, sono quasi tutti diretti da donne, in caso non si fosse capito. Penso che alcuni personaggi dovrebbero smetterla di fare così tanto i personaggi. Io odio – e questo tanto lo sanno tutti – Luca Guadagnino. Lo detesto con tutto il mio cuore.
Sfondi una porta spalancata.
Io non lo sopporto, non puoi capire quanto sia borghese… in ogni caso, non so come sta il cinema, penso di non esserci abbastanza dentro per avere un’idea proprio chiara. Penso ci siano tante ondate di rinnovamento, però alla fine i soldi vanno alle stesse cose trite. E quindi? È un po’ come la situazione in università, andrebbe un po’ svecchiato.
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