TORO SCATENATO
GUMMO
Di Alessia Vannini
Gummo (1997) di Harmony Korine è una cagata pazzesca. Novantadue minuti di immagini rivoltanti.

Malauguratamente, in quel 9 agosto 2024 ho preso la malsana decisione di guardare questo “film”, e direi che me ne sono pentita amaramente. La decisione era scaturita dal fatto che di lì a poco sarei andata a Venezia in occasione dell’81ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica. Dato che fra i film in programma Fuori Concorso c’era anche un nuovo film di Harmony Korine – Baby Invasion (2024) – e dato che non avevo ancora visto nessun suo lavoro, ho pensato fosse una buona idea guardarmi i suoi film per valutare se ne sarebbe valsa o meno la pena di prendere un biglietto per l’anteprima del suo ultimo progetto. Penso che sia inutile dire che maledico il giorno in cui ho deciso di guardare quel cumulo di spazzatura (letteralmente e figurativamente).
Ciò che è certo è che guardare Gummo mi ha convinta fermamente a non andare all’anteprima di Baby Invasion, perché il tempo è prezioso e sicuramente non va sprecato nel guardare qualsiasi cosa diretta da quell’omuncolo che si definisce regista.
Io sono quel tipo di persona che odia profondamente iniziare un film per poi lasciarlo a metà. Sfortunatamente per me, questo vale anche per i film orribili e, per quanto io stessi odiando Gummo già dai primi minuti di proiezione, mi sono sforzata di finirlo, nella speranza che magari ad un certo punto potesse migliorare. Joke’s on me, perché ad ogni minuto che passava il mio voltastomaco non faceva che aumentare, e francamente mi sta tornando un certo senso di nausea anche adesso che sto scrivendo questa recensione, perché il solo pensiero di quel film mi provoca ribrezzo. È un film che non consiglierei di vedere neanche al mio più acerrimo nemico.
Se alcuni definiscono il suo lavoro come “art for art’s sake” o “l’art pour l’art”, io lo definirei piuttosto come “garbage for garbage’s sake”, perché questo è tutto quel che è: spazzatura. Se spalmi dello sterco su una tela e lo esponi su una parete di un museo, rimangono pur sempre feci. Solo perché puoi dirigere un film non significa che tu debba farlo per forza, ed io credo che qualcuno debba seriamente farlo capire a Korine, perché gli 8.2 milioni di dollari di budget di Mister Lonely (2007) o i cinque di Spring Breakers – Una vacanza da sballo (Spring Breakers, 2012) e di Beach Bum – Una vita in fumo (The Beach Bum, 2019) sono un enorme spreco di soldi.
Opinioni personali a parte, la premessa del film è la seguente: la città di Xenia, in Ohio, il 3 aprile 1974 è stata colpita da un tornado devastante e la suddetta catastrofe ha ridotto i cittadini ad una comunità white trash dominata da noia, nichilismo e razzismo. Il film intreccia le storie di vari personaggi, primi fra tutti Solomon, Tummler e Bunny Boy.

Bello o brutto che sia, il film è una rappresentazione tanto agghiacciante quanto realistica del Midwest di quegli anni, e dipinge uno straziante affresco di una società che con l’uragano ha perso, oltre a tutti i propri possedimenti, anche i propri valori. Non c’è più spazio per la compassione, l’empatia e l’ingenuità adolescenziale. I ragazzini protagonisti sono violenti e brutali, al punto da uccidere gatti (che siano randagi o domestici) per rivenderli ad un ristorante e ricavarci qualche spicciolo.
Sebbene non sia un documentario né tantomeno un horror, Gummo è estremamente rivoltante e a dir poco grottesco, e prevale un uso della camera a mano dalla scarsa qualità video. Nonostante i personaggi nel film non siano strettamente basati su persone realmente esistite, rappresentano una perfetta sintesi dei cosiddetti “white trash” americani, ancora ancorati ad un passato lontano e privi di ogni valore che si possa definire tale. Definirlo agghiacciante non rende neppure l’idea, perché il film d’esordio alla regia di Korine porta sullo schermo violenza sugli animali, bullismo, abuso, razzismo, parenticidio, accumulo seriale e scarsa (o forse sarebbe meglio definirla inesistente) igiene.
Se l’uragano è una metafora esistenziale, il loro atteggiamento di completa indifferenza nei confronti dello squallore in cui si ritrovano a vivere propone una visione completamente negativa. Il loro comportamento nichilistico e autodistruttivo è completamente antivitale.

In poche parole, Korine non vede il bicchiere mezzo vuoto, ma solamente pieno di acqua putrida, in cui i suoi personaggi sguazzano incuranti – o disinteressati – a risollevarsi e a prendere seriamente in mano la loro vita. In conclusione, siete liberi di guardarvi i suoi film, ma se volete bene a voi stessi e ci tenete a non buttare via il vostro tempo – e soprattutto se siete amanti dei gatti – io vi sconsiglio vivamente di impiegare le vostre ore subendovi il supplizio che sono i suoi film. Uomo avvisato mezzo salvato.
GUMMO
Di Edoardo Sampaoli
Gummo è a modo suo un capolavoro. E chi lo ripudia, lasci perdere il cinema. La cosa più ironica è che la mia collega nel denigrare il film di Korine centra esattamente il punto del film. In fondo, alla fine, si tratta di trovarsi dal punto di vista giusto.
Gummo è, sì, un film nauseante, disgustoso, agghiacciante e tutti gli aggettivi di accezione negativa che possiamo trovargli. Tuttavia, più aggettivi negativi riusciremo a trovargli, più Harmony Korine vincerà con il suo Gummo.
Gummo si può incasellare in quel cinema di tipo statico non nella pratica, bensì nella scrittura. Difatti, nella pratica Korine cura l’opera con camera a mano e sequenze “grezze” al fine di rendere il film a tratti amatoriale, per restituire la sensazione di riprese d’archivio e aumentare l’illusione di realtà.
È nella scrittura che il film si può definire statico: Gummo è un universo dove prendono vita gli aspetti più allucinanti e disagianti di un’America laddove la vetrina è splendida, ma il negozio, dentro, puzza di merda e tutto sta andando in malora. Dall’inizio alla fine i personaggi non seguono nessuna evoluzione, ma neanche involuzione, partendo da un punto e rimanendovi fermi per tutta la durata. Ed è questa la triste realtà di un paese che ormai è solamente una pattumiera a cielo aperto. Il progresso – della civiltà si intende – è solo illusorio, e la Grande America, da sempre una fregatura, è ormai svelata per ciò che è… una grande cazzata.
È un’America basata sui Padri Fondatori, ma che ora non mantiene più nessun segno di essi. La civiltà americana naviga nel caos e nella disperazione in cerca di qualsiasi cosa a cui appigliarsi. Qui la sequenza di un ragazzo (interpretato dallo stesso Korine) in compagnia di un nano nero (Bryant L. Crenshaw) e la loro interazione diviene apoteosi di questa condizione, trasformandosi, a modo suo, in un momento emozionante. Certo, la mia collega potrebbe dirmi che è un’altra di quelle scene orripilanti di un film altrettanto orripilante. Io le rispondo che, se devo spezzare una lancia a suo favore solo per metà, gliela spezzo volentieri: la scena colpisce per il suo senso disagiante, il ragazzo tenta un approccio sessualizzante verso il nero, toccandolo in continuazione mentre lui cerca di togliergli le mani. Inizialmente non c’è molto spazio all’emozione e commozione, siamo storditi dalla mezz’ora precedente e pure questa sequenza non ha di certo una ricerca di tipo emotivo diretto; ma se è vero che un film si vive tre volte, la prima quando aspetti di vederlo e ti prepari a cosa potresti trovarti di fronte, la seconda la visione, e infine il ricordo e il segno che ti lascia dentro, allora qua, nel contesto della terza esperienza, la sequenza è riuscita.
Nel ricordo e nella ricerca mentale di rielaborazione, la scena rimane come un momento di angoscia, dove un ragazzo senza nome – una persona universalizzante, quindi – è simbolo di un’America che è stata tradita dai suoi padri, che ricerca conforto ovunque pur di liberarsi del male che le è stata inflitto fin dalla nascita.
Del concetto di padri è da notare come l’universo di Korine si popoli quasi interamente di giovani e/o giovani adulti. Uno degli unici adulti che vediamo è un signore che approccia delle sorelle (due grandi, una piccola) chiedendo se il gatto scomparso, scritto su un volantino, sia il loro. Da lì le accompagna in macchina, ma solo per portarle in realtà in un parcheggio dove metterà la mano sotto la gonna di una di loro. Qui l’unico personaggio che potrebbe e dovrebbe essere rassicurante si rivela anch’esso parte del grande incubo. Il disagio giovanile di Gummo parte da qui e sì, sarò ripetitivo, dai padri da cui siamo cresciuti, quelli da cui prendiamo ispirazione e che determinano ampiamente il nostro percorso. Potrei anche menzionare la sequenza della ragazza che confessa e racconta gli stupri ricevuti dal padre, ma direi che il concetto della perdita dei padri è stato ampiamente affrontato.
Il conforto il ragazzo lo cerca nell’individuo, ma altri personaggi di questo universo lo trovano nelle armi, nell’uccidere gatti, nella violenza, in droghe, rapine. Questo rimane a queste persone e questo prendono. Si può incolparli fino a un certo punto, il sistema americano li ha affogati nel fango fin dalla nascita e loro hanno imparato che al mondo c’è solo quello.
Ma perchè realmente per me Gummo è un capolavoro?
Gummo non fa una critica nuova; la grande ma in realtà piccola America è stata affrontata da fiumi e fiumi di autori, ma Korine resta forse tra i più impressi nella memoria. Ci sarà un motivo se la nostra cara collega ha ancora le immagini impresse, quando scrive, “Francamente mi sta tornando un certo senso di nausea anche adesso che sto scrivendo questa recensione”. Niente? Ancora non ti viene Alessia il perchè? Ti dò una mano: perché Gummo FUNZIONA.
Funziona nel dare il suo messaggio lanciandolo come un urlo strozzato in partenza.
Amare il cinema sociale e di critica e non amare Gummo è, per me, essere ipocriti. È voler fare i perbenisti quando nella critica c’è sempre un velo che ti tiene sì nel malessere, ma con un velo a proteggerti, allora qui un grandissimo film con una grandissima critica. Ma quando Gummo questo telo lo prende, ci cattura un gatto dentro e gli dà fuoco è brutto e cattivo. E questo funziona non perché ricerca a tutti i costi lo shock dello spettatore, ma perché Korine non usa mezzi termini e fa una ricerca a tratti di tipo documentaristico per restituire, in un universo concentrato, il male, quello vero, dell’America.
E quando forse tra tanti anni di altri grandi film – a cui non tolgo nessun merito – che criticano l’America ricorderai poco o nulla e invece di Gummo ancora brucerà il ricordo, forse capirai che Korine ha fatto centro in te.
Gummo è l’esempio di cinema che può fare la differenza, perché il turbamento e il disagio a volte sono le uniche emozioni con cui riusciamo a smuoverci, soprattutto quando questo effetto è supportato da un apparato di critica impostato perfettamente e non solo da shock immotivato.
E allora lode al cinema, lode a Gummo, lode a Harmony Korine.
Potete andare in pace, almeno voi che potete.
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