N4 2025

TECNICA

PIER PAOLO PASOLINI E CRISTO 

Un dialogo controverso ed interiore, attraverso Il Vangelo secondo Matteo e La ricotta

Di Sibilla Bissoni

La storia di Cristo come metafora della società e dei suoi attori: è forse questo che Pier Paolo Pasolini cercava di fare quando creò due film cult della sua mirabolante carriera: La ricotta (1963) e Il Vangelo secondo Matteo (1964).

Pasolini è stato uno degli intellettuali più controversi del secondo Novecento italiano, colui che riuscì ad essere poeta, autore, drammaturgo, attore, regista e sceneggiatore e allo stesso tempo far parlare di sé per le sue opinioni sulla politica, su temi sociali e sugli ultimi della società. 
PPP: ossia il comunista scomunicato dal partito stesso, scomodo alla destra, ma anche all’egemone centro e soprattutto alla sinistra, colui che non si volle piegare, colui che pur di non aderire ad uno schema, seppur insignificante, morì brutalmente trucidato.

La religione cristiano-cattolica fu una passione viscerale per il regista quasi quanto l’interesse per gli emarginati, quei Ragazzi di vita di cui scrisse già dal 1955. 
Pasolini amava innalzare i relitti che la società borghese del “miracolo economico” aveva calciato via con violenta indifferenza nelle periferie di tutte le città italiane, e per farlo spesso accostò queste figure alla Passione di Cristo, al Vangelo, alla Buona Novella.

Nel ’63 il regista prese parte ad un grande progetto: Ro.Go.Pa.G.. Si tratta di un film ad episodi che nel titolo voleva raccogliere le iniziali dei cognomi dei suoi registi: Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard, Pasolini e Ugo Gregoretti. Il film dura in tutto centodieci minuti, dei quali l’episodio La ricotta del nostro PPP occupa una mezz’ora.

Nella pellicola ci viene mostrato un set cinematografico per la realizzazione di un film sulla storia di Gesù, il cui fittizio regista è Orson Welles in persona. 
Il protagonista, dal tristemente ironico nome di Stracci (Mario Cipriani), è un pover’uomo di scarsa intelligenza che prova a lavorare come comparsa a quel film per riuscire a far sera e a mettere sotto ai denti qualcosa da mangiare. 

Stracci possiede la fame vera, quella del disperato lasciato ai margini da un mondo patinato come quello del cinema anni Sessanta. Attraverso varie peripezie si arriverà ad un finale crudo, vacuo, senza possibilità di sperare in un domani migliore (un classico pasoliniano). 
Pasolini fa strepitare di rispetto e amore per il Neorealismo italiano le inquadrature, i movimenti di macchina e le interazioni tra attori. La pellicola assume però un significato politico abbastanza controverso, deducibile dallo humor sarcastico delle interpretazioni presenti in esso. 
Il regista utilizza una velocizzazione estrema ed innaturale della pellicola in una scena, più nel dettaglio quella dove Stracci corre a comprare la benedetta ricotta. L’effetto speciale in questione era tipico di un certo cinema delle origini, dove la comicità slapstick e basata quasi unicamente sul corpo dell’attore faceva da padrona. Con questa scelta stilistica il regista, oltre a far capire la sua cultura aguzza sulla settima arte, cerca di far entrare chi guarda in una dimensione che vuole allontanarsi dal buonismo e dalla prevedibilità, abbracciando un’ironia sopraffina anche nel mostrare la tragedia umana della fame e dell’ingiustizia di classe. 

Il Pasolini comunista ed egocentrico non ha abbandonato comunque il posto in favore di un regista più disinteressato a se stesso e all’ideologia marxista.
A proposito di ciò è bene citare la scena dove un giornalista – che tenta invano di non sembrare snob – intervista mellifluo il regista (Welles), che in quel momento sta leggendo un libro “a caso” intitolato Mamma Roma, e che inneggia all’ignoranza della borghesia italiana dicendo frasi che sarebbero poi diventate icone della poetica e del pensiero del regista come: “Ma lei non sa cosa è un uomo medio? È un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista!”. Oppure ancora l’inquietante ma estremamente realistica risposta alla domanda “Cosa ne pensa della morte?” del giornalista, a cui lui risponde: “Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione”.
Pasolini porterà poi il povero Stracci sulla croce, proprio nei panni di uno dei ladroni ammazzati con Cristo (diretta analogia con la sua “inutile” parabola di vita), ed è qui che il protagonista smetterà davvero di respirare, esanime e stanco, perennemente affamato e sul lastrico. 
I quadri del film fittizio rappresentati nelle scene metacinematografiche ricordano l’estetica di pittori del passato come Rosso Fiorentino o addirittura il Parmigianino, baluardo del manierismo italiano. Pasolini contrappone così la staticità (il regista e gli operatori ripetono urlando di stare fermi immobili agli attori presenti nelle inquadrature, questo in maniera quasi perpetua) dei quadri proposti nella finzione del set ne La ricotta al dinamismo simil-documentaristico delle scene del “reale” dei dietro alle quinte, dove Stracci si arrovella per trovare un pezzo di pane, dove tutti quelli più in alto di lui non esitano a parlarci tranquilli per poi subito dopo prenderlo in giro in maniera perfida (per esempio quando è legato alla croce e gli altri attori fanno finta di sfamarlo per poi allontanare il cibo e ridere allegramente di lui, che legato alla croce è impossibilitato a reagire).

La parabola crudele, e per questo reale, raccontata nel film di PPP ci fa comprendere la desolazione dell’uomo povero e senza istruzione negli anni Sessanta, attraverso uno stile tecnico che strizza l’occhio al Neorealismo e allo stesso tempo si allontana da esso, flirtando con un cinema autoriale tutto nuovo e maggiormente politicizzato in maniera meno nazional-popolare (fenomeno che sarebbe poi esploso nel corso degli anni Settanta).

Pasolini, instancabile genio, l’anno dopo creerà un ulteriore lungometraggio, che in superficie può parere maggiormente didascalico: Il vangelo secondo Matteo
Il film, il cui soggetto è esattamente contenuto nel titolo, viene scritto e diretto dal nostro Pasolini, che ci fa viaggiare nelle assurde peripezie popolarmente note ad ogni cristiano (e non), ossia vita, morte e miracoli di Gesù il Nazareno, alias Cristo. 
Il volto del Salvatore qui è quello di Enrique Irazoqui, un attore antifascista spagnolo, dal volto dello studente “comune” nell’epoca contemporanea alla produzione della pellicola. 
La scelta degli altri volti di attori, oltre a quella più emblematica di tutte di Gesù, ci fa già capire la rivoluzione sul reale che tenta di fare Pier Paolo Pasolini. L’intellettuale traspone Cristo, gli apostoli e gli altri personaggi, più o meno principali, in una dimensione di moderno ed innovativo neorealismo (anche qui). 
Altra scelta peculiare sono i ripetuti ed ossessivi primi e primissimi piani del volto penetrante di Irazoqui, che prima spiega un’affascinante parabola e poi ordina da buon Messia cosa fare ai suoi “fedeli” apostoli. Il Gesù della pellicola, analogamente al regista, inneggia alla purezza dei bambini e ragazzini che spesso lo assalgono benevolmente quando entra in un paese a portare la buona novella, chiedendogli consigli o affetto. Gesù esalta la loro ingenuità genuina e davvero semplice, e quindi la loro conseguente bontà d’animo. Proprio come Pasolini che in vita dichiarò (in favore delle cosiddette persone “semplici”): “Quelle che amo di più sono le persone che possibilmente non abbiano fatto neanche la quarta elementare, cioè le persone assolutamente semplici. Non lo dico per retorica, ma perché la cultura piccolo-borghese, almeno nella mia nazione (ma forse anche in Francia e in Spagna), è qualcosa che porta sempre a delle corruzioni, a delle impurezze. Mentre un analfabeta, uno che abbia fatto i primi anni delle elementari, ha sempre una certa grazia che poi va perduta attraverso la cultura. Poi si ritrova a un altissimo grado di cultura, ma la cultura media è sempre corruttrice (…)” . Questo è solo un esempio delle controverse opinioni del Poeta Regista. 

La cinepresa è spesso traballante ed incerta nel riprendere i meravigliosi paesaggi del film (scelti dagli iconici scenografi Ferretti e Scaccianoce), che però trasmettono spesso più desolazione che abbondanza, perché in fondo la vita del Cristo fu così: desolata, breve e priva di reali speranze. 

Un pazzo che predicava di “porgere l’altra guancia” in un tempo in cui bastava rubare mezza mela per essere ammazzati in maniera del tutto legale. Era un eretico che si distoglieva dalla morale ebraica in cui in teoria era nato, un ribelle che non era asservito alla lunga e onnipresente mano dell’impero romano, uno strano individuo che con parole dal suono magico e miracoli inspiegabili fu capace di farsi di ricordare in eterno, e addirittura di essere venerato per i millenni a seguire. 

Pasolini rinnega ogni moralismo cattolico in questo film, per donare una cruda visione personale del Vangelo di Matteo. Una prova di questo è la scelta di sua madre Susanna per il ruolo della Vergine Maria “da anziana”.
Susanna Pasolini nel film, quando il giovane figlio viene letteralmente torturato e assassinato nel dolore più totale, non sta pienamente fingendo. Ella infatti aveva perso veramente un figlio molto giovane: Guido, unico fratello di Pier Paolo. 
Guido morì in maniera violenta, ucciso perché aveva preso parte ai movimenti di Resistenza nel cruento finale italiano della Seconda guerra mondiale. 
Susanna dichiarò di aver pensato profondamente a lui per riuscire ad interpretare meglio Maria nella pellicola dell’altro figlio. Insomma, Il Vangelo secondo Matteo è un continuo dualismo tra la vita di Cristo e l’intimità intellettuale e personale del regista.

Pasolini con questi due film riesce a darci una sua visione della storia del Salvatore, allontanandosi da retoriche di fede, ma non da quelle marxiste. Con questi due film Pasolini si racconta, ci fa comprendere il suo pensiero sulla società che viveva e che in gran parte odiava e criticava ne La ricotta, mentre nel lungometraggio del ’64 si fa guardare un po’ più nell’anima, uccidendo forse qualche vecchio demone.

Il regista delle due pellicole, come è comunemente noto, morì nel 1975 in maniera molto violenta, la stessa violenza che lo accompagnò nelle sue poesie, nelle sue scelte di vita, nelle sue opinioni, nei suoi libri e nei suoi film, violenza mentale e fisica, data e ricevuta. La violenza di un’anima in pena, mai stanca di indagare la società e se stessa.

Concludo l’articolo con delle parole di Pasolini stesso, scritte in una lettera a don Giovanni Rossi, proprio nel 1964: 

Io sono da sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio.

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