N4 2025

MUTO

DESTINO

Di Giovanni “Fusco” Pinotti

I film che mi hanno influenzato di più sono quelli di Fritz Lang. Quando ho visto Destino, all’improvviso mi sono reso conto che anche io volevo fare film. […] C’era qualcosa di questo film che parlava a qualcosa di profondo dentro di me; mi rese chiara la mia vita e la mia visione del mondo.  
– Luis Buñuel 

Fino a qualche settimana fa, se qualcuno mi avesse chiesto quale fosse la mia rappresentazione cinematografica preferita del Tristo Mietitore, la mia risposta sarebbe stata semplice e immediata: Bengt Ekerot ne Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet, 1957) di Ingmar Bergman. Oggi, la risposta è sempre la stessa, poiché è pressoché impossibile detronizzare il Maestro. Tuttavia, posso affermare con inedita consapevolezza che di recente un altro attore, Bernhard Goetzke, ha fatto breccia nel mio cuore per quanto riguarda la classifica delle migliori Morti. La sua interpretazione in Destino (Der müde Tod, 1921) di Fritz Lang ha un che di etereo, inumano e mistico che si avvicina pericolosamente alla Signora in Nero di bergmaniana memoria.  

Ma procediamo con ordine. Di cosa parla il capolavoro ultracentenario di Lang? Viaggiando in carrozza, una giovane coppia di innamorati (Lil Dagover lei e Walter Janssen lui) recupera per strada un misterioso viandante vestito tutto di nero, la cui tenebrosa presenza getta un velo di inquietudine sui due. Lo straniero altri non è che la Morte, la quale dapprima compra un appezzamento di terreno nel paese vicino e in seguito prende con sé l’anima del giovane amante, strappandolo ai piaceri della vita e dell’amore in quanto “il suo tempo era giunto”. La ragazza superstite, disperata per la perdita della sua dolce metà, implora la Morte di restituirle il suo amato, così questa, stoica ma mossa a compassione, decide di dare un’opportunità all’anima in pena: se la donna riuscirà a salvare anche solo una di tre vite attualmente in bilico, la Morte le renderà il suo amante. La sfida che ne seguirà vedrà il susseguirsi di vicende di innamorati sparsi nei più disparati angoli del globo, da un califfato arabo alla Venezia del Carnevale fino ad arrivare all’impero cinese. Riuscirà la giovane a salvare una delle tre vite in pericolo e a strappare così il suo diletto dalle grinfie della Grande Mietitrice? Oppure il destino si dimostrerà ancora una volta una forza ineluttabile che non può che sfuggire all’influenza e alla comprensione umana?  

Prima che Bergman portasse a compimento l’umanizzazione della Morte, Lang aveva già posto le basi per questa rappresentazione concettualmente più complessa e profonda. La sua Morte non è un “cattivo” che si diletta delle disgrazie degli eroi protagonisti della vicenda; si tratta piuttosto di una forza ultraterrena che svolge il proprio compito senza trarne alcun vantaggio o piacere. Basta fare riferimento al titolo tedesco, “la Morte stanca”, che riflette l’impressione di un Mietitore irrimediabilmente solo e sfiancato dal suo tragico incarico, appesantito dall’onere di strappare l’uomo dalle fatiche e dalle delizie dell’esistenza. La Morte viene resa come un personaggio di cui riusciamo a capire le intenzioni e che è dotato di sentimenti a noi familiari, e si tratta solo di una delle intuizioni brillanti di Lang, il quale riesce a far brillare il suo film anche sul piano tecnico e dell’immaginazione: in questa vicenda antologica, che sfrutta la varietà delle ambientazioni per sfoggiare costumi e scenografie di pregio, tecniche quali la sovrapposizione delle immagini e gli effetti ottici vengono  adoperate per rendere sullo schermo le apparizioni spettrali delle anime defunte e le sequenze dal sapore più onirico. Sembra poi che il cineasta austriaco abbia voluto dare alla propria favola (o ballata, genere con cui condivide la struttura) lo stesso sapore delle vicende mitologiche e religiose, con immagini di indiscutibile spessore e impatto quali le candele utilizzate per rappresentare le vite  umane – che ardono con vigore per poi affievolirsi e spegnersi gradualmente. La natura stessa della storia ricorda miti di origine classica, su tutti quello di Orfeo ed Euridice – anche se nella pellicola di Lang è la donna a dover salvare l’uomo e non vi è alcun incidente o errore che impedisca agli amanti di ricongiungersi. Ciò che interessa al regista, infatti, è meditare sulla natura dell’esistenza umana, riconoscendone i limiti, tratteggiandone un dipinto sia pessimistico che stranamente confortante e, in ultima analisi, esorcizzando la paura della morte, riconoscendola come forza neutrale e inevitabile con cui, tuttavia, è possibile scendere a patti – senza pretese di supremazia. 

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