DEATH OF A UNICORN
Di Miriam Padovan
A24 prende un unicorno, lo investe con l’auto e ci costruisce sopra una satira sociale, un horror splatter e una commedia nera. Il tutto, ovviamente, avvolto in una CGI discutibile e condito con tanto, tantissimo sangue – possibilmente blu. Il film segna l’esordio alla regia di Alex Scharfman, produttore con il curriculum di chi ha sempre guardato la macchina da presa da lontano e ora ha deciso di usarla per lanciare in faccia al pubblico un ibrido cinematografico dal sapore acidulo e pop. Al suo fianco c’è Ari Aster come produttore esecutivo.

La trama è semplice come il capitalismo che critica: Elliot Kintner (Paul Rudd), padre servile e frustrato, e sua figlia adolescente Ridley (Jenna Ortega, che comincia a diventare un po’ troppo adulta per i ruoli da ribelle teen) vanno a trovare il capo di lui, il farmacocrate Odell Leopold (Richard E. Grant, che sembra uscito da una parodia di Succession), nella sua villa da super-ricchi. Lungo la strada investono un cucciolo di unicorno. Ma tranquilli, non è grave: è solo l’inizio dell’apocalisse. Perché sì, questo unicorno non è quello che ti aspetti: niente arcobaleni, niente glitter.

Solo un mostro assetato di sangue con un corno pronto a trafiggere chiunque osi avvicinarsi – o peggio, chiunque voglia sfruttarlo. E qui entra in gioco il sottotesto pseudo-sociale-anticapitalista che Scharfman vuole servire con la sottigliezza di una mazzata sui denti: il corpo dell’unicorno ha proprietà curative? Allora si studia, si seziona, si inghiotte, si macella, si sfrutta, si commercializza. Fino a quando mamma e papà unicorno arrivano a far saltare tutto per aria, con una vendetta degna di un Tarantino qualsiasi.
La critica sociale, per carità, c’è: la borghesia malvagia e avara, la natura stuprata e vendicativa, il capitalismo farmaceutico che si nutre di ogni miracolo fino a ridurlo in pillole e profitti. Ma se l’idea è stimolante, la realizzazione spesso inciampa nell’ovvietà. I personaggi sono più stereotipi che individui: Ridley è l’attivista giovanile che “ha capito tutto”, Elliot è il padre succube che “non ha capito niente”, i Leopold sono l’epitome della malvagità coniugata al potere.

Narrativamente, il film parte come un teen movie, scivola nel fantasy, rotola nell’horror e si tuffa in uno home invasion. Il tono è schizofrenico come il pubblico che cerca di capire se ridere, spaventarsi o indignarsi. La CGI degli unicorni è, diciamo, “partecipativa”: non convince mai del tutto, ma si fa notare, come un cosplay riuscito male a una fiera fantasy ma realizzato con tanta passione. Gli effetti splatter, invece, sono un’ode al kitsch: corni che trafiggono, zoccoli che spezzano, sangue ovunque. Molto, molto divertente da guardare. Scharfman tenta un’operazione di rinnovamento iconografico, ribaltando l’immaginario zuccheroso dell’unicorno in chiave horror-punk. Il mito si fa carne, e la carne si fa poltiglia. L’operazione è interessante a livello teorico, ma nella pratica mostra i suoi limiti: la riflessione politica si perde tra i jumpscare e i luoghi comuni, e lo script annaspa quando tenta la morale da favoletta distopica. Scharfman sa cosa vuole dire, ma non sempre sa come dirlo. Il risultato è un film che ha un disperato bisogno di essere preso sul serio, ma che nel tentativo di “impressionare la borghesia” finisce spesso per accontentarla. Un po’ come se dicesse: “Guardate quanto sono strano, però compratemi lo stesso”.
Death of a Unicorn è un’opera prima che ha il merito di osare, ma non sempre di riuscire. È un film che mastica mitologia, satira e horror per sputare fuori qualcosa di strambo e sgangherato, per motivi buoni o cattivi. Il messaggio c’è, ma non è mai veramente tagliente. La messa in scena è bizzarra, ma mai davvero iconica. Il sangue scorre, ma non sempre lava via i peccati del film.

In definitiva, Death of a Unicorn è un’opera che si muove con la grazia di un unicorno in un negozio di porcellane: affascinante, goffa, e potenzialmente disastrosa. Ma in un panorama cinematografico sempre più piatto e prevedibile, almeno tenta di calciare un po’ di tavoli. E se alla fine l’unico vero miracolo è che qualcuno abbia prodotto un film del genere… forse l’unicorno esiste davvero.

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