THE LAST SHOWGIRL
Di Sara Pellacani

Palettes, strass, brillantini: questo è il mondo che ci presenta Gia Coppola nel suo ultimo film The Last Showgirl con protagonista Pamela Anderson. La storia è quella di Shelley, una showgirl di Las Vegas il cui spettacolo chiamato Razzle Dazzle sta per chiudere i battenti. Shelly è quindi costretta a fare i conti con il proprio passato, riconciliando i rapporti con sua figlia e cercando di trovare un nuovo posto di lavoro come ballerina, nonostante molti degli show la considerino ormai troppo vecchia per farne parte.
Il film arriva sullo strascico del fenomeno di The Substance (2024) e, come nella pellicola di Coralie Fargeat, anche in The Last Showgirl Gia Coppola affronta la tematica dei canoni estetici tossici del mondo dello spettacolo, che tagliano fuori i corpi femminili non più giovani. Il corpo divistico, quindi, diventa il fulcro centrale della pellicola, con Pamela Anderson in un ruolo inedito ma che le calza perfettamente e che riesce a catturare lo spettatore.
Il film splende a livello estetico: la Coppola, infatti, anche grazie alla fotografia di Autumn Durald – già collaboratrice della regista in Palo Alto (2013) – riesce a donare un senso di disillusione alla pellicola mostrando una Las Vegas di giorno, senza luci, dove la magia è finita. Ciò che lo spettatore percepisce è la disperazione e la voglia di aggrapparsi a qualcosa che è destinato a finire, proprio come fa il personaggio di Shelley, non accettando l’idea che il suo show stia chiudendo, continuando così ad aggrapparsi ai ricordi del passato e tentando di rimediare agli errori commessi nel ruolo di madre. Ed è proprio in quest’ultimo punto che la scrittura del film si fa più carente, non approfondendo il rapporto madre-figlia e spiegandolo in maniera superficiale e con alcune soluzioni narrative che non convincono del tutto (un esempio è quando si scopre chi è il padre della ragazza). Il film infatti in certi punti non sembra avere una direzione ben precisa, proponendo allo spettatore lunghe inquadrature di Shelley quasi in contemplazione che ammira la città oppure in cui prova una nuova coreografia. Momenti quindi che non regalano nulla alla narrazione e che sembrano solo riempire degli spazi che altrimenti sarebbero stati vuoti.
Inoltre, il resto dei personaggi non viene particolarmente approfondito, servendo semplicemente a raccontare una storia corale di persone accomunate da difficoltà, distrutte da una città che da un momento all’altro ti toglie tutto e che quindi cercano di farsi forza l’un l’altra. La pellicola poi regala delle ottime interpretazioni, a partire da quella della Anderson che interpreta a pieno la figura di Shelley in tutte le sue debolezze e insicurezze, facendo il ritratto perfetto di una donna scalfita dal tempo con tanti rimpianti ma che non riesce mai a darsi per vinta.

Anche Dave Bautista e Jamie Lee Curtis convincono nei rispettivi ruoli del silenzioso Eddie, vecchia fiamma di Shelley, e di Annette, l’esuberante amica della protagonista.

Una nota di merito però va ai costumi, che oltre ad essere ben realizzati sono anche metaforici: un esempio è quando a Shelley si rompe ripetutamente l’ala del costume scenico a causa della maniglia della porta che conduce al palco, elemento che simboleggia come la ballerina sia ormai tagliata fuori da un business che considera solo le giovani e belle ragazze.
Il film, in conclusione, risulta un gioiellino estetico ma non riesce ad andare oltre, facendo sospettare in alcuni punti e per via di alcune inquadrature che lo scopo ultimo della pellicola fosse solo quello di risultare aesthetically pleasing senza avere un vero e proprio sviluppo a livello narrativo.

Lascia un commento