BIANCANEVE
Di Miriam Padovan

Il remake live-action di Biancaneve e i sette nani (Snow White and the Seven Dwarfs, registi vari, 1937), diretto da Marc Webb e interpretato da Rachel Zegler e Gal Gadot, arriva nelle sale con il fragore di mille polemiche. Una pellicola che, ancor prima di uscire, ha scatenato dibattiti su inclusione, woke culture e politicamente corretto. Ma, al di là delle discussioni social, il film regge il confronto con il classico del 1937 o si rivela un pasticcio indigeribile?
Fin dalle prime scene, la nuova “Biancaneve” ci tiene a farci sapere che non siamo più nella fiaba originale dei Grimm né tantomeno nell’epoca in cui Disney incantava con principesse gentili e principi salvatori. Qui il principe non c’è, sostituito da un ladro di nome Jonathan (Andrew Burnap) che cerca comunque di riciclarsi come eroe del giorno. La protagonista, invece, non è più la dolce e sottomessa fanciulla, bensì una leader in erba, destinata a governare con gentilezza e determinazione. Una scelta narrativa che può funzionare, se solo non fosse accompagnata da un tono moralistico che sembra più un tedioso sermone digeribile solo se hai otto anni.
La regina Grimilde viene interpretata da una Gal Gadot che, pur di rimanere credibile nella sua ossessione per la bellezza, sfoggia outfit degni di una sfilata d’alta moda. Peccato che la sua malvagità sia più di facciata che sostanziale: un cattivo ben riuscito dovrebbe far tremare, ma qui la regina pare più una modella scocciata che un’arcigna despota. La sua ossessione per Biancaneve non è tanto una questione estetica quanto un problema di bellezza interiore. Una trovata che, sulla carta, ha senso, ma che nella pratica viene spiattellata con una tale insistenza da far rimpiangere la sottigliezza di una mela avvelenata.

Oh, i poveri nani. Vittime di un dibattito infinito, tra CGI e attori in carne e ossa, alla fine si ritrovano realizzati con una performance capture che li rende più simili a figurine digitali che a personaggi con spessore.

Sul fronte musicale, il film cerca di richiamare il fascino del classico, ma senza il coraggio di abbracciare pienamente la sua eredità. Le nuove canzoni di Benj Pasek e Justin Paul non lasciano il segno e, alla fine della proiezione, l’unico brano che resta in testa è ancora “Impara a fischiettar”, segno che la magia sonora dell’originale non si può facilmente replicare.
Tuttavia, al netto delle scelte discutibili, il film prova ad attualizzare il messaggio della fiaba. Biancaneve non attende di essere salvata, ma prende in mano il proprio destino e guida una rivolta che cita esplicitamente Il quarto stato di Pellizza da Volpedo. Un’idea interessante, se non fosse per il fatto che il tutto viene imbottito di un messaggio tanto edificante quanto prevedibile, lasciando poco spazio alla meraviglia. Ma il vero problema del film non sta tanto nelle scelte narrative quanto nel caos ideologico che lo attraversa. Disney, una volta regina incontrastata dell’intrattenimento fiabesco, sembra oggi prigioniera delle proprie contraddizioni. Già Sergej M. Ėjzenštejn nel suo saggio su Walt Disney parlava di un cinema capace di offrire oblio e riflessione al tempo stesso, un perfetto bilanciamento tra evasione e critica sociale. Oggi, invece, la casa di Topolino sembra aver perso il tocco magico, sostituendo il senso del meraviglioso con una goffa ricerca di rilevanza politica. Questo Biancaneve (Snow White) ne è l’esempio lampante: un film che si contorce nel tentativo di essere progressista, ma che finisce per essere un’operazione di facciata priva di autentica ispirazione. A rendere il tutto più incandescente è lo scontro politico tra le due protagoniste nella vita reale. Rachel Zegler, apertamente filopalestinese, e Gal Gadot, ex-soldato israeliano e sostenitrice del governo Netanyahu, incarnano due posizioni opposte che hanno finito per trasformare la promozione del film in una battaglia ideologica. Più che una favola sulla bellezza interiore, sembra di assistere a un riflesso delle tensioni geopolitiche mondiali. Il risultato? Un ulteriore strato di polemiche che distoglie l’attenzione dal film stesso, facendo sì che la pellicola sia più ricordata per i conflitti fuori dallo schermo che per i suoi meriti artistici.

In definitiva, il Biancaneve di Marc Webb non è il disastro apocalittico che i detrattori del politicamente corretto temevano, ma nemmeno il capolavoro innovativo che i suoi sostenitori speravano. È un film che cammina sulle uova, cercando di bilanciare inclusività e nostalgia, ma finendo per risultare un prodotto tiepido, impantanato in una CGI poco ispirata e in una narrazione che sembra avere paura di osare davvero. E alla fine, il vero incantesimo rimane quello del classico del 1937, che continua a brillare senza bisogno di aggiornamenti forzati.

Lascia un commento