HOKAGE – OMBRA DI FUOCO
Di Gianluca Meotti
Quasi dieci anni dopo Fires on the Plain (野火, Nobi) e cinque dopo il secondo capitolo della trilogia antimilitarista, Killing (斬、, Zan), Shin’ya Tsukamoto ritorna a parlare delle conseguenze distruttive della Seconda guerra mondiale sul suo paese con Hokage – Ombra di fuoco (ほかげ). Lo fa, questa volta, esplorando le cavità deflagrate di una piccola casa e di chi la abita.
Lasciato da parte il feticismo biomeccanico per le fusioni uomo macchina, Tsukamoto restringe nettamente il campo d’azione dove cercano di sopravvivere i suoi personaggi e realizza un’opera in cui gli spazi sembrano più grandi e pieni di quello che sono, poiché testimoni mutati della/dalla Storia; dove chi li abita si aggrappa disperatamente al senso di normalità che, in parte, emanano. La distinzione dei tre atti narrativi è parallela alle tre diverse ambientazioni, ognuna fotografia emotiva e fisica della stratificazione sociale postuma alla tragedia della guerra.
Nell’immediato dopoguerra, un villaggio nato attorno ad un mercato (o un mercato nato dentro un villaggio) è il desolante teatro dove una donna si prostituisce per vivere. Le uniche interazioni che ha con il mondo esterno sono quelle con l’uomo che la sfrutta e che le porta il sakè da offrire ai clienti, e con un piccolo orfano che si intrufola in casa sua per cercare provviste da rubare. Un giorno alla sua porta si presenta un soldato, un giovane veterano che si invaghisce di lei e che le prepara la cena. Una volta convinto anche l’orfano a smettere di entrare in casa furtivamente, i tre formano un improbabile gruppo familiare che, ognuno a suo modo, porta marchiati a fuoco i segni della guerra. La piccola casa diventa così uno spazio angusto dove dolore e rabbia si mescolano, strappando il velo di pseudo-normalità che era venuto a formarsi e rivelando le psicologie deturpate dei tre, in particolare degli adulti.
L’Ombra di fuoco del sottotitolo italiano è quella lasciata dal conflitto bellico sulle pareti della piccola abitazione. I luoghi sono il fulcro narrativo, nemmeno troppo nascosto, attraverso il quale Tsukamoto sintetizza ciò che è già stato detto da tanti. Ma la sensazione tattile che emanano quelle pareti fragili e parzialmente bruciate, quelle grandi pentole al mercato dove bolle costantemente una zuppa grigiastra, i tatami fini e usurati, il sanatorio a cielo aperto in mezzo al villaggio senza nemmeno una panca dove sedersi e i vestiti sudati e polverosi che tutti indossano, è un’operazione così raffinata che solo un regista che conosce così profondamente la consistenza della materia (che siano arti meccanizzati o porte scorrevoli in carta di riso poco importa) può portare avanti con successo. L’oscillare con la camera fra le mura domestiche contribuisce a creare un’illusione di maestosità della casa; non è un virtuosismo fine a se stesso ma una personificazione e un ingigantimento dell’incubo bellico. La casa così piccola diventa un tempio della devastazione sociale, con i suoi angoli così bui da sembrare privi di fondo. L’orrore del conflitto viene trasposto direttamente nell’ambiente familiare per antonomasia, grazie ad un uso del linguaggio che è essenziale nella sua atrocità.
Questo è particolarmente vero soprattutto se si guarda alla prima e alla terza parte dell’opera. Concentrandosi invece sul segmento centrale è chiaro come Tsukamoto intraveda la possibilità di rappresentare un altro Giappone, nuovo e arcaico al tempo stesso, pieno di vitalità e contraddizioni. Quindi, nel viaggio che il piccolo compirà una volta conosciuto un datore di lavoro piuttosto particolare, il regista riprende il suo paese in modo diametralmente opposto rispetto a ciò che aveva fatto fino ad ora.
Sembra quasi di essere entrati in un altro film, tanto lo stile è cambiato: sterminati campi coltivati e strade larghe, uomini in abiti tradizionali e donne che cucinano pasti sostanziosi.
Il ribaltamento è netto e coraggioso ma forse di un sentimentalismo non richiesto a questo punto della narrazione, tanto più perché poi, nell’ultima parte, si ritorna fra le strade polverose del villaggio con alcune fra le immagini più dure di tutta la pellicola.
Una casa senza nessuno che vi abiti non è una casa, e Tsukamoto compie un lavoro fisico e di profilazione psicologica sui suoi personaggi estremamente interessante. La donna è completamente assorbita dalla morte di suo marito e suo figlio, si muove quasi strisciando e il suo volto è sempre grigio e inespressivo. Per contro, il soldato porta una gioia quasi isterica che è antipodale rispetto a quella della donna e che si rivela, però, per quello che tragicamente è nei momenti in cui indossa il copricapo di uniforme; fuoriesce un lato violento e misantropico, che distrugge tutto ciò che ha intorno a sé, come se fosse ancora in guerra. Ed infine il bambino, il personaggio a cui Tsukamoto conferisce l’onere di portatore di speranza. Il rapporto forzato che i tre intavolano è caricato di emotività portate all’estremo e isterismi che possono scaturire solo da situazioni extra-ordinarie come quelle che vivono.
Drammaticamente si è portati ad aspettarsi un qualche exploit, che inevitabilmente arriva, ma che non sancisce la fine di una qualche forma di accennata rinascita, anzi è proprio il punto di partenza drammaturgico da cui il regista fa partire la storia del suo vero protagonista, l’orfanello. E per l’ennesima volta nella sua carriera, Tsukamoto utilizza espedienti narrativi molto sottili ma dritti al punto. Mettendo in mano al piccolo una pistola che lui maneggia con innaturale destrezza per un qualcuno della sua età, il rapporto con la morte e con la distruzione è costante ma non definitivo; riuscire a sfuggirvi è possibile ma non semplice, ricostruire una società dal nulla si può fare ma richiede lo sforzo di coloro che ci si sono ritrovati per caso e che quindi non hanno fatto nulla per contribuire allo stato pietoso in cui l’hanno trovata.
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